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"PUNTO E A CAPO" Racconto Horror / Mistery / Pulp
di Vecchio Mara
pubblicato il 2018-10-21 11:23:42
La porta dell’Ade
Sarebbe un dramma per un narratore di vicende horror non sognare più esseri orripilanti; zombie, vampiri, uomini lupo e tutto l’armamentario del provetto scrittore che col genere horror, oltre a nutrire la fantasia, ha rimpinguato il conto in banca. Eppure questo era ciò che mi stava accadendo.
Dopo aver pubblicato otto romanzi, con un più che lusinghiero successo di pubblico e critica, mi ero come bloccato. «Troppa gente, troppo frastuono, la città non aiuta l’ispirazione», mi dicevo guardando la lineetta che pulsava sullo schermo del PC invitandomi, anzi, implorandomi di proseguire; di riempire di frasi la pagina intonsa appena sporcata, in alto a sinistra, dal titolo scelto per il nuovo romanzo horror che, da ormai più di una settimana continuavo a leggere e rileggere cercando l’incipit adatto alla bisogna. «Il corpo di Medusa… Il corpo di Medusa…» ripetevo ossessivamente come un mantra; senza peraltro riuscire ad andare oltre il titolo che, quando mi sovvenne, mi parve azzeccatissimo pur non avendovi ancora costruito attorno una trama.
«Ma come si fa a pensare a un titolo senza avere la benché minima idea di cosa trattare? Magari Medusa, alla fine risulterà del tutto avulsa al narrato», dicevo tormentandomi, non senza ragione, ripensando alla genesi del titolo.
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Tutta colpa, o merito, di un povero serpentello che, visto sgusciare tra l’erba del giardino dieci giorni prima, terrorizzato avevo decapitato con un colpo di taglio del badile (il ribrezzo che mi provocano tuttora le innocue creature striscianti è tutta colpa di un fatto accadutomi da ragazzo, quando il mio amico Ernesto, per scherno, mi lanciò contro una biscia d’acqua che, forse più terrorizzata di me, non trovò di meglio che avvinghiarsi al primo appiglio incontrato durante l’indesiderato volo: il mio collo!).
«Il corpo di Medusa decapitata da Perseo», mi ero detto osservando agghiacciato il filiforme rettile che, pur privato della parte apicale, ancora si dimenava. Questione di attimi, un movimento dovuto, probabilmente, all’ultimo impulso che il cervello tramite i nervi trasmise ai muscoli.
«Il corpo di Medusa… bel titolo per un horror! Me lo devo scrivere, prima che me ne dimentichi», avevo aggiunto rientrando celermente in casa.
Dopo aver acceso il PC e aperto una nuova pagina di Word mi ero messo a digitare sveltamente. «Ecco fatto!» avevo esclamato rimirando soddisfatto il titolo del mio nuovo romanzo, del quale al momento non esisteva null’altro dentro la mia mente, campeggiare sulla pagina bianca; certo che all’indomani, dopo una buona dormita, l’avrei riempita di frasi accattivanti per gli amanti del genere.
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«Senza considerare che può essere l’occasione giusta per inaugurare la torre di guardia. Non c’ho passato nemmeno una notte da quando ho rogitato; ed è trascorso ormai più di un anno», dissi ad Artemisia, quarantacinque anni portati alla grande e responsabile editoriale della casa editrice; nonché, da ben tre anni, mia compagna di vita.
«Uhm…» fece lei da dietro la scrivania. «Eravamo rimasti che ci avremmo trascorso le ferie… Ora come ora, non potrei liberarmi nemmeno per un’ora… mi spiace.»
Leggendo delusione nello sguardo e amarezza nelle parole, non me la sentii di dirle che in verità avevo pensato di andarci da solo per provare, lontano da tutto e tutti, a ritrovare l’ispirazione perduta. «Non ti devi preoccupare, ci andrò da solo… E tu, se troverai qualche buco nei fine settimana verrai a farmi visita», improvvisai per risollevarle un po’ il morale.
Artemisia ci pensò su. «Non ci sperare troppo, da qui ad agosto saranno mesi infernali per me…» iniziò a dire. Poi, appoggiando una mano su quella che io tenevo sulla scrivania, fissandomi nello sguardo mi chiese: «Ho deluso le tue attese?»
Ma quale aspettative deluse, era quello che volevo sentirti dire… avrei voluto risponderle, baciandola… Naturalmente lo pensai solamente e, mettendo su uno sguardo adatto alla circostanza, risposi contrito: «No, ti capisco… sono mesi cruciali per le scelte editoriali future, me ne farò una ragione… E poi, c’è pur sempre la tecnologia, no?» conclusi sorridendo, indicando con gli occhi lo Smartphone posato sulla scrivania.
Artemisia annuì. «Hai ragione, ci sentiremo ogni giorno… e farò di tutto per raggiungerti, almeno per un fine settimana.»
«Cos’è? Una promessa, o una minaccia?» feci io sbarrando gli occhi. E tanto bastò a liberare il suo radioso sorriso.
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L’anno prima, durante il periodo pasquale, ci eravamo concessi tre giorni di stacco da trascorrere il più lontano possibile dalla città e dai rispettivi impegni. Camminando lungo la scogliera avevamo notato, poco più in alto, ergersi su un promontorio a picco sul mare un manufatto in pietra a guisa di torre. Incuriositi c’eravamo incamminati sul sentiero che portava sin lassù.
«Mamma mia! Che strapiombo!» aveva esclamato Artemisia artigliando il mio avambraccio, guardando le onde infrangersi ai piedi della scogliera.
«Guarda che roba: impressionante!» avevo convenuto risalendo con lo sguardo la scogliera che, fondendosi senza soluzione di continuità con la parete in pietra del lato ovest della torre, s’innalzava per altri quindici metri oltre il limite naturale del promontorio.
«Che posto stupendo. Pare di essere in capo al mondo… vento salmastro che ti entra dentro…» aveva iniziato a dire con trasporto, guardando il mare con occhi a fessura e inspirando profondamente. Poi, espirando, indicando la spuma ai piedi della scogliera aveva aggiunto: «Concerto di onde che s’infrangono…» e volgendo uno sguardo perso su di me, aveva concluso, sorprendendomi: «E due… che fanno l’amore ai piedi della torre».
Sdraiandosi mollemente sull’erba mi aveva trascinato sopra di sé. «Prendimi qui, ora», aveva sussurrato vogliosa avvicinando le sue labbra alle mie.
E fu l’inizio di un momento d’amore… che ancora rammento come il nostro migliore.
«Guarda!» aveva esclamato stupefatta Artemisia, indicando il portale in legno che si apriva sul lato est del manufatto, mentre, dopo esserci ricomposti, giravamo attorno alla torre per proseguire lungo la scogliera. «E’ in vendita!»
Effettivamente, sopra il portale scuro di quercia campeggiava una locandina rossa che, oltre alla dicitura “VENDESI” a caratteri cubitali, riportava l’indirizzo e il recapito telefonico di un’agenzia immobiliare. «Proviamo a chiamare!», avevo esclamato. Non saprei dire se fu per curiosità o per scherzo, ma sicuramente non fu per reale interesse; fatto sta che il giorno dopo l’agente immobiliare ci mostrava l’interno della torre.
«E questa… sarebbe la camera!» aveva annunciato l’agente immobiliare, ansimando, indicando la porta accanto a quella del bagno, mentre noi cercavamo di riprendere fiato dopo esser saliti lungo la stretta e ripida scala in pietra che, avvitandosi a spirale, ci aveva condotto al terzo livello della torre eretta, secondo lui, secoli addietro per poter avvistare, scrutando il mare dal quarto e ultimo livello, o lastrico solare che dir si voglia, le imbarcazioni dei saraceni prima che si avvicinassero alla costa; così da permettere ai pescatori di porre in opera le contromisure necessarie atte a ridurre i danni collaterali delle incursioni piratesche.
Volgendo lo sguardo all’intorno, avevo notato che la luce entrava dall’unica finestra, ad arco acuto, esposta a sud. Mentre la parete cieca ad ovest, quella a strapiombo sul mare, era occupata da un armadio, presumo di quercia, a due ante con cappello da gendarme; difronte al quale, dunque a est, era sistemato il letto in ferro e i due comodini. Un cassettone, sito accanto alla porta d’ingresso sulla parete nord e l’inquietante oggetto appeso al muro sopra di esso, completava l’arredamento.
«E quella? Che ci fa in camera da letto? A che serve?» aveva chiesto allibita Artemisia.
L’agente immobiliare aveva sorriso avvicinando il viso all’oggetto, prima di rispondere ironicamente: «A specchiarsi!»
«La trovo un’idea, originalissima!» avevo replicato a tono, osservando il mio sguardo riflesso nel metallo lucidato ad arte.
«Voi due siete fuori di testa! Io la trovo un’idea inquietante, da non dormirci la notte!» aveva sbottato Artemisia lasciando la camera.
Sicuramente, per una donna che si apprestasse a trascorrere la notte dentro il letto con l’amato, la visione di una grande mannaia da boia completa d’impugnatura appesa sopra il comò, seppur lucidata a specchio, non è che potesse ispirare libidinosi propositi.
«Un tipo abbastanza originale il proprietario… Effettivamente, quella mannaia mette i brividi», avevo convenuto sfiorando coi polpastrelli l’affilatissima lama.
«Non ci sono problemi… se la signora non gradisce l’oggetto, lo farò sostituire con uno specchio che si addica all’arredamento», aveva prontamente ribattuto il tipo.
Eppure quell’oggetto stimolava la mia fantasia. “Potrebbe tornarmi utile come fonte d’ispirazione”, avevo pensato. «No… no, lo lasci! Se troveremo l’accordo sul prezzo… vedrò io cosa farci», avevo risposto dopo la riflessione.
Il giorno dopo firmavo il compromesso per l’acquisto della torre, con annessi e connessi.
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«Eccoci qua!» esclamai prendendo il trolley dal bagagliaio del fuoristrada dopo essermi infilato la tracolla della borsa del PC.
Sbuffando come un mantice trasportai il bagaglio su per la scala a chiocciola, posai borsa e trolley sul letto, sistemai il PC sul comodino e lo misi sotto carica, in modo d’averlo a portata di mano nel caso, non improbabile, che mi balenasse qualche idea da buttar giù svegliandomi in piena notte. Poi, prima di aprire la cerniera lampo del trolley, provai a chiamare Artemisia.
«Non c’è campo», dissi osservando il display dello Smartphone. “Poco male”, pensai guardando il PC, “così potrò usare solamente word e non mi perderò in inutili divagazioni sui siti internet.”
Poi lasciai la camera, salii l’ultima rampa di scale e uscii allo scoperto sul lastrico solare. «Qui prende alla grandissima!» esclamai soddisfatto digitando il numero di Artemisia.
Dopo un rapido saluto tornai in camera e spalancai le due porte dell’armadio. «E questa che roba è?» mi chiesi sfiorando coi polpastrelli la polvere giallognola sul ripiano di fondo.
Sfidai l’odore di stantio trattenendo il fiato e immersi la testa all’interno volgendo lo sguardo all’insù. «Tarli!» sbottai allibito osservando la miriade di buchi dalle dimensioni infinitesimali che tempestavano la parte interna del cappello da gendarme, ritraendomi subitamente.
Guardai l’orologio, era ormai pomeriggio inoltrato, troppo tardi per scendere in paese a prendere un impregnante antitarlo per disinfestare l’interno dell’armadio. «Beh…» feci tirando un cassetto del comò, «almeno questo sembra in buono stato», conclusi osservando i polpastrelli puliti dopo averli passati sulle tavole intonse del fondo.
Dopo aver saggiato con mano l’interno degli altri tre cassetti, soddisfatto del risultato aprii il trolley e sistemai gli indumenti al loro interno. «Sono distrutto», dissi alla fine lasciandomi cadere supino sopra il copriletto. «Le provviste le scaricherò più tardi», aggiunsi chiudendo gli occhi.
Era l’ora in cui il sole iniziava a calare, e la luce entrando fioca dalla finestra, assieme al lieve sciabordio del mare calmo, conciliò un lungo e profondo sonno.
«Che rumore è?» esclamai svegliandomi di soprassalto, sgranando gli occhi nel buio totale. Tastando con la mano la parete accanto alla testiera del letto raggiunsi l’interruttore. «Le nove… devo aver dormito per almeno tre ore», constatai guardando l’orologio.
«Ma questo rumore da dove proviene?» mi chiesi cercando di capire la direzione del ritmico picchiettare.
Avvicinando l’orecchio all’armadio compresi. “Oh, questi mica avranno intenzione di darci dentro tutta la notte?” pensai. Poi, rammentando che tempo addietro fui costretto ad estirpare e bruciare metri di battiscopa per liberarmi definitivamente dei tarli che avevano fatto della mia camera la loro personale sala da concerto notturna, convenni che l’unico modo per liberarmi degli indesiderati e rumorosi ospiti fosse quello di smontare l’armadio e sistemarlo nel rustico al piano terra.
«Per fortuna mi sono portato la cassetta degli attrezzi. La prima cosa che farò domattina è smontare questo nido ti tarli», proclamai osservando con sguardo di sfida l’armadio, preparandomi per una lunga notte in compagnia delle operose bestiole.
Ero certo che, grazie anche alla mia passione per il bricolage, sarebbe stato un giochetto da ragazzi smontare quel perfetto incastro di tavole. E così fu. Dopo aver sfilato le due ante, svitai le quattro lunghe viti che, dall’interno, fissavano saldamente le varie parti della struttura; di seguito tolsi prima il cappello, poi la spalla sinistra. «Cos’è questo vuoto?» mi chiesi sorpreso poco dopo, togliendo le tavole che, incastrandosi l’un l’altra, fungevano da schienale.
L’armadio celava uno scasso del muro, profondo una quarantina di centimetri. Notando i grossi cardini ancora presenti accanto alla parete di fondo e, nel lato opposto, il buco tondo nella pietra per infilarvi il catenaccio, non ebbi difficoltà a classificarlo come l’imbotte murata di una porta.
“Doveva esserci un poggiolo con vista spettacolare sullo strapiombo a mare… Chissà chi e perché ha pensato bene di toglierlo e murare l’apertura?” mi chiedevo facendo mente locale sulla parete esterna, liscia e cieca.
«Questa macchia d’umidità, assomiglia a un volto», dissi avvicinando lo sguardo a una delle tante presenti sull’intonaco.
Osservando con più attenzione mi accorsi che dei riccioli nerastri serpentiformi incorniciavano l’ovale biancastro. “Un affresco quasi illeggibile”, pensai cercando di decifrare il soggetto del dipinto che, consunto dal tempo e dall’umidità, sarebbe stato pressoché irriconoscibile se non fosse stato per i riccioli neri serpentiformi. «Una testa di Medusa» osservai convinto, strofinando quel che restava del volto con il palmo della mano. «Si distingue appena il contorno del viso, l’intonaco è troppo ammalorato… peccato!» conclusi deluso prima di tornare ad occuparmi dell’armadio.
Se smontarlo fu un gioco da ragazzi, scendere i pezzi dell’armadio per la ripida e stretta scala a chiocciola fu un’operazione ardua e faticosissima. «Beh! E’ quasi mezzogiorno, dopo ‘sta sfacchinata, un buon pranzo a base di pesce credo d’essermelo meritato», annunciai compiaciuto guardando l’orologio, dopo aver rimontato l’armadio nel rustico al piano terra.
Così, dopo aver relazionato Artemisia, presi il fuoristrada e scesi in paese per concedermi ciò che mi ero ampiamente guadagnato.
Pensando al modo per farlo sloggiare dalla soglia, procedevo lentamente senza riuscire a distogliere lo sguardo, agghiacciato, dal gattone nero accucciato davanti alla porta e al serpentello che si dimenava tra le sue fauci. Un colpo secco d’acceleratore seguito da un affondo sul pedale del freno bastò a spaventarlo e a farlo allontanare di quel tanto bastante a liberare il passaggio. Ghignando presi il sacchetto coi pesciolini fritti acquistati per la cena, scesi dal fuoristrada ed entrai lestamente chiudendomi la porta alle spalle.
«Hai sentito odore di pesce, eh?» dissi sorridendo rivolgendomi al gatto che, abbandonata la preda, si era arrampicato tra le sbarre della piccola finestra accanto alla porta e batteva, miagolando, la zampetta contro il vetro.
«Facciamo così: io lascio la finestra socchiusa e ti faccio trovare un piattino di leccornie tutti i giorni, se tu mi prometti di tenere alla larga serpenti o altre bestie schifose che gravitano attorno alla torre», dissi provando ad accordarmi con il gatto.
Il gatto miagolando parve accettare la proposta. Allora aprii la finestra e lo feci entrare; dopodiché presi un piatto, lo posai accanto alla porta e ci misi dentro qualche pesciolino fritto. «Ti piacciono eh? Tu rispetta il patto, che io ti riempio il piatto», conclusi poeticamente mentre il felino, dopo il lauto pranzetto, si leccava i baffi.
«Ora che gli amichetti tarli son relegati dentro il magazzino, vediamo se mi riesce di addormentarmi e tirar dritto fino a domani mattina», sospiravo stanco ma soddisfatto alle dieci di sera, infilandomi dentro il letto.
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«Era notte inoltrata quando uno strano disagio, procuratomi dalla sensazione di essere osservato, mi aveva costretto ad alzare la testa dal cuscino. Sgranando gli occhi incredulo mi era parso di vedere, illuminata dalla fioca luce lunare, la testa di Medusa dipinta sulla porta di quercia uscire dall’imbotte e, levitando, arrestarsi a un metro e mezzo da terra davanti al letto.
«I ricci serpentini, unica parte decifrabile del ritratto consunto dal tempo, stavano mutando rapidamente davanti al mio sguardo impaurito in riccioli corvini che ora incorniciavano un volto dalle fattezze giovanili. “E’ lei con venti anni di meno… gli occhi… le labbra… mah, è un sogno o un incubo?” mi domandavo incredulo. La bocca carnosa e imbronciata, gli occhi lunghi e neri erano quelli di Artemisia, non mi potevo sbagliare», dicevo alle prime luci dell’alba seduto sul letto con il PC in grembo, battendo sui tasti per comporre l’incipit del nuovo romanzo.
Guardai l’imbotte. “Non c’è nessuna porta, eppure pareva tutto così vero”, pensai osservando l’intonaco e l’affresco ammalorato.
Un sogno così vivido e ancora così presente, da riuscire a rammentarlo sin nei minimi particolari, non mi era mai capitato. Così, prima che qualche dettaglio andasse perduto, mi affrettai a metter giù il resto: «No, non mi sbagliavo, quel tono di voce mi era familiare. E in quell’assurda situazione io la stavo ad ascoltare, come se osservare occhi, labbra e muscoli facciali muoversi per articolare frasi compiute e imploranti in una testa priva del corpo fosse la cosa più naturale di questo mondo. “Una parte di me è rimasta nell’Ade”, diceva indicando con gli occhi l’imbotte, “ed io, per non esser bruciata dal sorger di ogni nuovo sole sono costretta a mutare in ritratto pittato… Se mi aiuterai sarò tua ogni notte e ti amerò per l’eternità.” L’allettante offerta mi aveva spinto ad osare, chiedendole cosa avrei dovuto fare. Al che, aveva risposto usando un tono, ora avvolgente: “La notte che udrai bussare alla porta dell’Ade, fai quello che io non potrò mai fare: tira il catenaccio, aprila e lascia entrare il mio corpo… e sarò tua… tua nella mia interezza, fisica e mentale… per sempre tua! E’ quasi l’alba, ti devo lasciare, quando udrai bussare, tu non tergiversare corri, corri ad aprire… all’amore… al mio amore…” m’implorava mentre il volto si allontanava e la voce si affievoliva, sino a sparire quando il volto era tornato ad essere un nebuloso e indecifrabile ritratto dai capelli serpentini, pittato sopra la porta dell’Ade».
Rileggendo quello che avevo appena scritto, mi complimentai con me stesso: «Beh, non male direi. C’è da rivedere un po’ la forma, ma la trama mi pare buona: accattivante, direi».
Poi osservando l’affresco sul fondo dell’imbotte provai a solleticare la fantasia.
«No, non mi viene in mente niente», sbottai deluso spegnando il PC. «Per oggi basta e avanza… Vedremo se la prossima notte porterà consiglio», chiosai alzandomi dal letto.
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«Ma è tardissimo!» esclamai prendendo l’orologio dal comodino: erano le dieci di mattina.
Mezzo sveglio e mezzo no, mi tirai su e, appoggiando la schiena alla testiera del letto, rammentai il lungo e gratificante sogno che mi aveva accompagnato per l’intera notte sin quasi all’albeggiare, lasciandomi il sapore agrodolce d’aver vissuto fisicamente l’irrealtà onirica.
Il sogno era la naturale prosecuzione di quello della notte precedente; così, dopo aver acceso il PC e riletto l’incipit buttato giù il giorno prima, iniziai a battere sui tasti un’altra pagina di un romanzo dalla trama ancora in gran parte ignota; confidando che nottetempo un nuovo sogno mi sarebbe comunque venuto in soccorso.
«Così dovrebbe andare», sospirai dopo aver aggiustato qualche refuso qua a là, dovuti all’ansia di descrivere sveltamente il sogno prima che potessi scordarmi qualche particolare. «Proviamo a rileggerlo un’altra volta», aggiunsi non del tutto soddisfatto del risultato.
«Dopo aver udito bussare insistentemente avevo acceso la luce. “Sto sognando… non può essere vero”, avevo pensato, incredulo e spaventato, sgranando gli occhi sulla pesante porta di quercia dentro l’imbotte. La testa di Medusa dipinta nel suo centro, con le labbra contratte, i serpentelli al posto dei capelli e lo sguardo ch’esprimeva la dolorosa sorpresa che accompagna l’attimo fatale, era lì a ricordarmi il patto: la promessa della notte precedente. Il rimbombo insistente dei pugni, che battendo contro la porta dall’esterno mi avevano spaventato, ora non mi facevano più paura; anzi, erano un invito ad osare. Come un automa mi ero accostato alla porta e, dopo un attimo d’esitazione, avevo tirato il pesante catenaccio.
«La porta, spinta con forza dall’esterno, si era spalancata. “E’ questo l’Ade?” mi ero chiesto osservando null’altro che una nebbia spessa e gelatinosa. Poi, volgendo lo sguardo sulla porta spalancata, ero rimasto come pietrificato guardando il dipinto che decorava il lato esterno del manufatto ligneo: un busto nudo senza testa, visto di spalle, con le braccia tese verso l’alto e i pugni che parevano battere contro l’uscio. Scendendo lentamente con lo sguardo avevo notato che il corpo dalle fattezze femminee, poco sotto la cintola mutava in quelle di un rettile. “Mezza donna e mezza serpe… e io odio i serpenti”, avevo fatto appena in tempo a pensare inorridito arretrando sino ad arrestarmi contro la pediera del letto, quando il dipinto scivolando a terra aveva preso vita e, trascinandosi con le braccia e dimenando la parte inferiore del corpo serpentiforme era sgusciata all’interno. Subito dopo il busto decapitato si era voltato, aveva chiuso la porta, serrato il catenaccio e poi, tirandosi su aiutandosi con la parte inferiore serpentiforme, era giunto a sfiorare con il collo sanguinolento la testa di Medusa campeggiante al centro del lato interno.
«A quel punto, dopo che le due figure si erano unite saldamente, la parte inferiore serpentiforme aveva iniziato a mutare. Pochi istanti dopo due gambe lunghe e flessuose reggevano il busto sinuoso, mentre riccioli neri e vaporosi incorniciavano il volto, sensuale e rilassato, dall’incarnato eburneo. “Mi hai ridato beltà e desiderio d’amare… sono tua… sarai mio…” sussurrava vogliosa mentre, inginocchiata davanti a me, mi sfilava i boxer.
«E quel gesto aveva dato il “la” a una notte inenarrabile. “E’ quasi l’alba, il sole brucia i sogni, devo andare, tornerò ogni notte”, diceva trascinandomi verso l’imbotte.
«“Resta con me”, l’avevo pregata.
«“Vorrei, ma non posso. Quando sarò fuori ricordati di sprangare la porta dell’Ade, altrimenti i demoni del tuo fantasticare fagociteranno ogni pensiero”, si era raccomandata, adombrando chissà quali sfaceli.
«“Dove si trova l’Ade? In fondo al mare, o su nel cielo?” le avevo allora chiesto.
«“L’Ade non è là fuori… e nemmeno qua dentro”, mi aveva risposto indicando prima la porta e poi la camera.
«“Allora dov’è?” avevo insistito.
«“Qui dentro”, aveva sussurrato puntandomi l’indice in mezzo alla fronte. “Io sono la materializzazione dei tuoi desideri… delle tue paure… di tutto ciò che avresti sempre voluto possedere… e anche di tutto quello che non avresti mai voluto vedere”, aveva chiosato perdendosi dentro la nebbia spessa e gelatinosa gravante oltre la porta.»
“Forse dovrei rivedere il periodo… Così profuma di un ricordo troppo lontano, mentre sento tutto molto, troppo presente e reale… Ci penserò alla fine rileggendolo l’intera stesura… se mai ci arriverò”, riflettei, attendendo con ansia che tornasse la notte.
Gettai un’occhiata all’interno dell’imbotte. La porta naturalmente non esisteva. Ma quello che mi colpì fu non riconoscere la testa di Medusa. “Suggestionato da un buco nascosto dietro un armadio, ho visto un volto dentro una macchia di umidità”, pensai deluso.
«Beh, mi consola il fatto di non essere il solo; c’è chi dentro un muro ci ha visto santi o Madonne… almeno ora so che potrò sognare tranquillamente senza dovermi confrontare con il soprannaturale», conclusi sdrammatizzando, spegnando il PC.
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«Doveva essere un horror, ne sta uscendo un romanzo erotico», commentai scuotendo la testa, leggendo il racconto ispirato da sei notti corroborate da altrettanti lunghi e intriganti sogni.
La mia libidine onirica stava mutando la mitica, orripilante Medusa, nell’innocua e affascinante eroina di una favola hard.
«Qui non cavo un ragno dal buco!» sbottai deluso vagando con lo sguardo all’intorno. «O cambio verso ai miei sogni… o faccio le valige e me ne torno da Artemisia», conclusi spegnendo con rabbia il PC, decidendo, di fatto, che se non ci fossero state svolte significative, oltreché gratificanti per l’ego del narratore horror, la prossima sarebbe stata l’ultima notte che avrei trascorso dentro la torre.
Ma purtroppo, o per fortuna, la svolta tanto attesa era ormai prossima.
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«Ora sì che si comincia a ragionare!» esclamai soddisfatto, svegliandomi ben carico di buon mattino.
Appoggiato alla testiera del letto, curvato sul PC sistemato sulle cosce, vedevo i polpastrelli danzare vertiginosamente sui tasti. Un quarto d’ora appena impiegai a descrivere il sogno della svolta e, dopo averlo riletto e corretto, scorrendo velocemente la parte iniziale del sogno, per certi versi simile se non uguale ai precedenti, mi soffermai nuovamente sulla parte più interessante: «Un attimo prima la sentivo muoversi, strisciare calda e sinuosa sopra il mio corpo nudo; eravamo entrambi ormai prossimi all’apice del piacere. Ma un attimo dopo, il soffiare insistente del gatto appostato tra il muro e il comò aveva rovinato l’incanto. La notte particolarmente afosa mi aveva consigliato di lasciare porta e finestra spalancate per creare un po’ di corrente e lui, il randagio nero, ne aveva approfittato. “Ha paura dei gatti”, avevo pensato sentendo la sue labbra staccarsi dalle mie. Poi, aprendo gli occhi, mi era parso di vederla puntare con occhi fiammeggianti il gatto che ora soffiava più forte inarcando la schiena… Questione di un attimo, un flash: capelli serpentini, pelle squamosa, spire che mi avvolgevano le gambe… e poi, buio e un silenzio innaturale. “Quel maledetto gatto ha rovinato tutto”, era sbottata alzandosi dal letto. Mentre io, spaventato, cercavo di capire accendendo la luce.
«La guardavo, come paralizzato, allontanarsi, nuda e bellissima. E mentre la vedo perdersi nella nebbia spessa e lattiginosa oltre l’imbotte, mi domandavo se fosse lei la creatura mostruosa che mi si era palesata per un breve attimo davanti allo sguardo.
«Riavutomi dallo spavento ero corso a sprangare la porta. Poi avevo volto lo sguardo tra il muro e il comò. Il gatto, pietrificato, con le fauci spalancate e il pelo ritto sulla schiena inarcata era lì, silente e immoto, a ricordarmi chi fosse realmente la divina creatura che albergava i miei sogni».
La narrazione stava prendendo finalmente quota. «Ora sì che si comincia a ragionare!» ripetei soddisfatto posando il PC sul comodino.
Fu allora che lo sguardo mi cadde tra il muro e il comò. «Mah! Sto ancora sognando?» mi domandai allibito avvicinandomi.
No, non stavo sognando, il gatto di pietra era davvero lì, immobile e spaventato nell’atto d’aggredire per non essere sopraffatto.
Al momento avrei voluto scappare lontano. Poi, ripensandoci, la curiosità di capire mi spinse a rimanere. “Mica può entrare se io non apro la porta dell’Ade”, riflettevo per darmi coraggio. Ma il motivo vero era l’attrazione che Medusa, nonostante potesse annichilirmi con un solo sguardo, esercitava sull’uomo, ma soprattutto sullo scrittore creatore di mostri e storie paurose che aveva visto materializzarsi il suo incubo.
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Tre intere notti angoscianti, trascorse con gli occhi fissi sulla porta dell’Ade. La sentivo battere i pugni furiosa. Avrebbe voluto entrare. Forse desiderava solo il calore dell’amore… forse… ma io ogniqualvolta che fui sul punto di cedere al sentimento, spostando lo sguardo sul gatto di pietra, rammentando la sua vera natura riuscii a trattenermi.
La quarta notte, fissando sino all’alba, deluso e allo stesso tempo sollevato, l’intonaco ammalorato sul fondo dell’imbotte, realizzai che se n’era uscita per sempre dalla mia vita, dai miei sogni, o incubi che dir si voglia; ma, purtroppo, non dai miei pensieri.
Attesi altre quattro lunghe notti prima d’arrendermi all’evidenza. «Beh, direi che è ora di tornare nel mondo reale», sospirai svegliandomi, rilassato, alle undici antimeridiane dopo l’ultima veglia.
«Addio gatto, sei stato un ottimo guardiano, c’hai rimesso le tue sette vite per rispettare il nostro patto», lo commemorai commosso, lanciandolo in mare dal lastrico solare prima di scendere a preparare le valige.
«Una macchina, chi può essere?» mi chiesi udendo il motore arrestarsi mentre aprivo il trolley.
Mi precipitai giù dalla scala, aprii la porta. «Artemisia!» esclamai abbracciandola commosso.
«Confesso che non mi sarei aspettata un simile entusiasmo», fece lei sorridendo.
«Ieri, quando ci siamo sentiti, perché non me lo hai detto che saresti venuta?»
«Volevo farti una sorpresa. Mi son presa tre giorni tutti per noi», rispose. Poi, guardandomi negli occhi, imbrunendosi mi chiese: «Cosa c’è, avresti preferito che non fossi venuta?»
«Ma no, che vai pensando… Il fatto è che io stavo preparando i bagagli per tornare in città, mi hai preso al volo, se arrivavi tra un’ora non trovavi nessuno», risposi accarezzandole il viso.
«Beh», fece lei aprendo il portellone posteriore, «per fortuna sono arrivata in tempo… Su, dammi una mano con il bagaglio.»
«E l’armadio?» mi chiese una volta giunti in camera.
«Era un nido di tarli, te ne avevo parlato, ricordi?» risposi gettando una rapida e timorosa occhiata all’imbotte.
«Hai ragione, me ne ero scordata, ma ora dove metto la mia roba?» disse lei guardandosi attorno.
«Aspetta, libero un paio di cassetti», risposi avvicinandomi al comò.
«Ti piace proprio quell’oggetto, eh?» fece lei indicando la mannaia.
«Scusa, se avessi saputo del tuo arrivo l’avrei tolta… Provvedo subito», ribattei contrito, attivandomi all’istante.
«Ma no, lasciala lì… Sì, osservandola meglio… direi che svolge alla perfezione la funzione di specchio», commentò ironicamente guardando il suo volto riflesso nella lama.
«Ok, come vuoi… libero i cassetti. Poi, quando hai sistemato le tue cose, ti porto in un posticino dove si mangia da Dio… Anzi, visto il contesto, direi da Nettuno!» chiosai trascinandola al riso.
**************************
«Mi guardi in modo strano, c’è qualcosa che non va?» mi chiese durante il pranzo, notando la fissità del mio sguardo.
«No… nulla…» biascicai emergendo dai miei pensieri. «Mi ero perso nei tuoi occhi, nella tua bocca, nei tuoi riccioli… nella tua voce sensuale… sei bellissima», sussurrai con trasporto.
«Adulatore», fece lei abbassando lo sguardo.
No, non la stavo adulando, purtroppo esprimevo sinceramente quel che pensavo… di Medusa!
«Ora che vuoi fare?» le chiesi uscendo dal ristorante.
«Non so, decidi tu, a me sta bene tutto», rispose sorridendo.
«Ok!» feci senza aggiungere altro, dirigendomi al parcheggio.
Scorrazzando senza meta tra costa e colline, capitammo per caso in un grazioso paesino sul cucuzzolo di un colle. Camminando per le sue viuzze sbucammo dentro una piazzetta dove si svolgeva un mercatino d’antiquariato, lì trascorremmo un paio d’ore in allegria rovistando tra vecchie cianfrusaglie, rivalutate come oggetti di modernariato, esposte alla rinfusa sui banchi. Poi, sul calar della sera, ci accomodammo a uno dei tavoli esterni del ristorantino sito nella piazzetta.
«Sei felice?» mi chiese mentre camminava cingendomi in vita con la testa appoggiata alla mia spalla.
«Lo sono», risposi laconicamente.
«Dimostramelo», replicò poco convinta.
Arrestai il passo e la baciai con trasporto. Poi, sussurrandole: «E’ solo l’antipasto, il resto sarà servito a letto», ripresi a camminare stringendola a me.
*************************
«Mamma mia! Mamma mia!» esclamava ansimando, sudatissima, distesa nel letto dopo il monumentale amplesso.
«Ti senti male?» le chiesi osservandola scuotere il capo con le dita immerse nella chioma riccioluta.
«No, no… sto bene… sono solo esausta… ma che ti è successo stasera?» domandò sconvolta da cotanto ardore.
«Perché, non ti è piaciuto?» le chiesi preoccupato.
«Ma no, che vai pensando,» fece lei regalandomi un largo sorriso, «sei stato fantastico… ma una simile foga mi è del tutto nuova; non ti fermavi più, mi hai mezza smontata.»
Poi, vedendomi accigliato, accarezzandomi concluse con una battuta che trascinò entrambi al riso: «Controlla in fondo al letto, non vorrei aver lasciato laggiù qualche pezzo di me».
«Sono stanca morta. Svegliami domani a mezzogiorno, non prima, mi raccomando», chiosò voltandosi sul fianco e sistemando la coperta sotto l’ascella sinistra.
“Hai ragione, non stavo facendo l’amore con te, ma del sesso sfrenato con lei… Toccandoti, baciandoti, stringendoti ho avuto l’impressione che le tue forme prosperose si assottigliassero… che la tua pelle ambrata schiarendo profumasse di un diverso sentore… il sentore della perversione animalesca elargita a piene mani da Medusa”, riflettevo osservando spalla collo e capelli di Artemisia prima di spegnere la luce.
“Lei è ancora troppo presente in questa camera, dobbiamo andarcene al più presto da questo posto, domani la convincerò», chiosai gettando un’ultima occhiata obliqua all’intonaco sul fondo dell’imbotte, prima di chiudere gli occhi.
L’urlo squarciante di un tuono mi fece sobbalzare. “La luce è andata”, pensai premendo l’interruttore. Nubi nere avevano coperto luna e stelle, vento di tempesta e buio opprimente avevano invaso camera e mente.
Approfittando della luce accecante di un fulmine volsi lo sguardo su Artemisia. “Non si è mossa, dorme ancora”, pensai osservandola da dietro, distesa sul fianco destro, prima di alzarmi per andare a chiudere la finestra.
Mentre vagavo attonito nel buio, chiedendomi come potesse soffiare ancora così forte il vento dopo che avevo chiuso la finestra e sprangato la porta, un fulmine mi vene in soccorso illuminando camera e mente. “La porta dell’Ade, è spalancata! Lei è tornata per vendicarsi, dobbiamo andarcene!” realizzai agitandomi, guardando l’imbotte.
«Artemisia! Svegliati!» urlai volgendo lo sguardo in direzione del letto.
«Mi Dio! fa che non sia vero!» esclamai ancora non ricevendo risposta, rammentando il gatto pietrificato.
I suoi riccioli illuminati ad intermittenza da una scarica di fulmini a breve distanza, parevano contorcersi come serpi. “Eccola lì, ha preso il posto di Artemisia e mi aspetta dentro il letto… maledetta!” pensavo sentendomi ormai perduto, arretrando verso la porta.
Impattando con la schiena contro il comò ebbi l’illuminazione; staccai la mannaia dal muro e, afferrando saldamente l’impugnatura, tenendola bel alta sopra la testa trattenendo il fiato mi accostai al letto; poi, quando l’ennesimo fulmine illuminò spalla collo e ricci serpentiformi, urlando a squarciagola: «Tornatene nell’Ade! Mostro!» vibrai il colpo fatale.
Il sangue schizzandomi fin dentro gli occhi mi costrinse a serrare le palpebre, quando le riaprii il vento era cessato e la luce era tornata.
«Mio Dio, cosa ho fatto… Artemisia! NOOO!» urlai singhiozzando gettandomi sul letto lordato del sangue che sgorgava copioso dal collo reciso di netto, abbracciando e baciando la testa separata dal resto del corpo che, come il serpentello che avevo decapitato in giardino, ancora vibrava d’un residuo di vita.
*************************************
Ed ora eccomi qua, immobile, con indosso soltanto sangue essiccato e odore di morte; tenendo ben salda tra le mani l’impugnatura della mannaia, nella trepidante attesa di vedere il sole calare e l’aprirsi, in fondo all’imbotte, della porta dell’Ade. Deciso a chiudere i conti con il mostro che ogni notte divora i miei sogni.
FINE
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L'AUTORE Vecchio Mara
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Prima tre cosette di poco conto: 1. c’aveva è (o era) sconsigliato da diverse grammatiche perché “c” davanti ad “a” ha un suono duro e non dolce, mentre qui la locuzione è “ci” aveva. 2 “al che” va senza accento perché “Chè” con l’accento è una forma aulica – quindi da evitare, potendo – di “perché”, ma “al che” non vuol dire “al perché” bensì “stante quanto precede”. 3 la parte è “cieca” non “ceca” (della repubblica ceca). Secondariamente. Io ho un vago ricordo di un telefilm, probabilmente tratto da Poe, in cui c’era una casa con una mannaia appesa a un pendolo attaccato al soffitto... può essere? Ciò detto, veniamo al racconto. Tutto ruota attorno al concetto di possessione: possedere una casa, possedere una donna, essere posseduti da un’entità o semplicemente da un’idea.
Il racconto funziona molto bene perché questi quattro significati s’intersecano efficacemente con la scrittura a fare da tramite tra realtà e fantasia. In particolare, il legame tra l’atto sessuale e quello creativo è stato molte volte sviscerato in letteratura ed è sempre caricabile di significati, sfumature, punti di vista. L’unico punto che approfondirei è questo: il protagonista vede un gatto nero e lo inserisce nel racconto, poi scrive che il gatto viene pietrificato e si trova davanti un gatto di pietra. Ora: se ho capito bene, e può darsi di no, questo gatto non era mai stato nominato prima e se, nella realtà, lo scrittore si trova di colpo davanti qualcosa che fino a un istante prima esisteva solo nella sua fantasia, se non ha un colpo, poco ci manca; la reazione, insomma, mi pare un po’ fiacca. Infine, hai fatto bene a cambiare il titolo da “L’imbotte” (eh? Cosa? ) a questo. Molto più semplice e quindi più efficace. Da ultimo non tutti gli scrittori (per loro fortuna) devono aspettare un incubo per scrivere un racconto horror, anche se moltissimi racconti e romanzi “insospettabili” hanno un origine in qualche modo collegata al mondo onirico. Per Lovecraft era quasi sempre così, mentre, per esempio, King trae sovente ispirazione dalla realtà, su cui fantastica a modo suo. Piaciuto molto, ciao.