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Non davvero ora non più
"PUNTO E A CAPO"
Racconto
Horror / Mistery / Pulp
pubblicato il 2018-09-29 10:51:07
Il commissario di pubblica sicurezza Antoine Lafitte, capo della gendarmeria di Bruxelles, si trovava con il suo più fidato collaboratore, Paul Valoux, nello studio del pittore Renè Magritte.
La moglie, Georgette Berger, ne aveva denunciato la scomparsa: mancava da casa da tre giorni.
Lafitte da anni era un fervente ammiratore delle opere del pittore e si buttò nel caso con un entusiasmo speciale.
«L’ultima volta che ha visto suo marito era qua nel suo atelier, madame Berger?»
«Sì commissario, veda, mio marito è un uomo mite, metodico e come dire: straordinariamente anonimo.
Segue sempre gli stessi orari e veste sempre in modo formale e la sua bombetta è il suo segno di riconoscimento.
I nostri vicini di casa regolano gli orologi, quando esce per la sua abituale passeggiata mattutina.
Tre giorni fa l’aspettavo al piano di sotto, in salotto, per la cena, e non si è presentato.
Allarmata, sono salita nel suo studio e lui non c’era.
Vi prego, aiutatemi.»
La donna era sinceramente addolorata, Lafitte riconosceva subito i teatranti; li smascherava captando una certa luce falsa verdognola nei loro occhi, rivelatrici finestre dell’anima.
«Profonderemo il massimo sforzo, madame. Adesso si rilassi e rifletta su qualche particolare che potrebbe essere utile, mentre ispeziono l’ambiente.»
Lafitte e il suo assistente Valoux perquisirono delicatamente l’atelier, senza trovare nessun indizio interessante.
Si trovarono insieme di fronte a un grande quadro, l’ultimo che stava dipingendo Magritte.
Entrambi i poliziotti rimasero colpiti, e nello stesso tempo ammirati, dall’immagine macabra, inquietante, in cui aleggiava un clima infestato di infausti presagi.
Magritte con la sua arte li faceva attraversare con lo sguardo due stanze comunicanti di una casa, in fondo alle quali s’intravedeva un balcone sprovvisto di porta che dava sulle cime di una montagna innevata.
Le stanze erano scarsamente arredate e avevano pareti grigie e spogli pavimenti di assi di legno.
In primo piano, due uomini in bombetta stavano appostati ai lati dell’entrata della seconda stanza.
Sembravano ragionieri ma avevano il contegno di emissari di una setta fanatica di assassini e, armati di randello e rete da pesca, si preparavano a un’aggressione.
Nella seconda stanza un giovane che indossava un elegante completo fatto su misura stava in piedi davanti a un grammofono e guardava compiaciuto all’interno della tromba, ascoltando un ritmo o una melodia.
Il giovane appariva lieto, sollevato, anche se alle sue spalle giaceva riversa su un letto il corpo di una donna nuda.
Probabilmente era stata appena assassinata perché dalla sua bocca usciva un fiotto di sangue e aveva la gola tagliata e poi ricoperta con un panno.
Dal balcone emergevano, posizionate l’una accanto all’altra come se fossero piantate in una cassetta di fiori, le teste di tre uomini dai capelli ben tagliati che guardavano nella stanza.
Lafitte diede un lieve colpo di gomito a Valoux e sussurrò:
«Paul, quest’uomo ha visto qualcosa che non doveva vedere».
«E’ evidente, Antoine».
Il commissario ritornò nel salotto dove erano stati accolti e si rivolse a Georgette Berger:
«Suo marito le ha raccontato di qualche episodio strano a cui aveva assistito ultimamente?»
«Ispettore e gentile collaboratore, vi prego di seguirmi…»
Con brevi e agili passi Georgette li guidò verso una angusta camera attigua il salotto: aprì la porta, accese la luce e al centro della stanza disadorna campeggiava un quadro di Magritte.
Lafitte lo riconobbe con emozione, era lo straordinario “Le fantasticherie di un passeggiatore solitario”.
«Veda Monsieur Laffite, questo dipinto è la rappresentazione dell’episodio inquietante che mi richiedeva, l’evento che ha influenzato tutta l’esistenza di René.
Come forse già sa Magritte perse sua madre a soli quattordici anni: Adeline Isabelle Régine Bertinchamps, fu ripescata, annegata, dal vicino fiume Sambre il 12 marzo 1912, con il volto completamente fasciato dalla camicia da notte. Aveva solo quarantadue anni.
La breve inchiesta della gendarmeria di Châtelet si concluse con un verdetto di suicidio e penso l’abbia già consultata prima di venire da noi.
Come è noto, in un primo momento, le dichiarazioni del marito, Leopold Magritte, che attestavano lo stato di depressione della moglie furono decisive per la rapida conclusione dell'inchiesta.
Dopo la morte di suo padre, anni dopo, Renè scrisse per me e per la gendarmeria una memoria in cui narrava un’altra storia sommersa relativa a quella tragedia.
La situazione economica della famiglia a quel tempo non era buona e Adelyne, più o meno consenziente il marito, arrotondava con la professione più vecchia del mondo, facendo la cortigiana per alcuni ricchi borghesi che aveva conosciuto quando lavorava nel campo della moda.
Una sera vi fu un forte alterco alla presenza di René fra marito e moglie; la donna accusava e ridicolizzava apertamente il marito – Renè non ricordava esattamente per quale motivo - che, in un accesso d'ira picchiò e uccise la moglie soffocandola con la tovaglia della cucina.
Il padre di René accertata la morte della moglie, insieme al figlio caricò la moglie su di un auto e di notte la portò sino al fiume Sambre.
Poi, aiutato dal figlio la lasciò scivolare in acqua così come si trovava, in camicia da notte e con la tovaglia sul volto.
Questa si gonfiò e si appiccicò sul volto in acqua e così venne ritrovata, a Namur, nei pressi del ponte dell'Évêché.
L’autoaccusa di complicità fatta da René non è stata quasi mai considerata ai fini dell'inchiesta e poi ormai Magritte era diventato Magritte, una celebrità del surrealismo a livello mondiale e una delle poche personalità artistiche di spicco in Belgio e si lasciò perdere.
Come vedete nel dipinto, l'uomo in nero con la bombetta è il pittore stesso che si sente proiettato nell'incubo della scena del suo passato adolescenziale e vive l'incubo del suicidio della madre, espresso dalla donna nuda, immobile e rigida come un idolo di legno, una sorta di Dea fluviale muschiosa e inerte.
Ora: potremmo fare molte considerazioni su quest’opera e quell’evento traumatico ma mi preme narrarvi solo quei particolari che ritengo importanti per ritrovare Renè, ed essendo alquanto scabrosi e scandalosi devo chiedervi, ispettore Laffite, il massimo riserbo…»
«…potete contare sulla mia massima discrezione, Mme Georgette, nei limiti ovviamente consentiti dalla legge…»
«…è ovvio, monsieur, grazie di avermelo ricordato.
Bene, detto questo, dovete sapere che ogni dodici marzo, da quando ci conosciamo, Renè mi chiede di compiere per lui e con lui un singolare anniversario e l’avete visto raffigurato in quell’altro grande quadro dalla posizione della donna sgozzata.
Ebbene, intorno alle undici di sera di ogni dodici marzo, Renè mi chiede di spogliarmi nuda e di adagiarmi sul nostro letto nuziale coprendomi la testa con il lenzuolo.
Dopodiché resta a guardarmi per circa mezz’ora e comincia a disegnare o a dipingere qualche immagine o qualche scena.»
«Scusi se la interrompo, madame, ma credo di cominciare a capire che cosa ci vuole suggerire: oggi è il quindici marzo e pertanto, mi sembra d’intuire, l’ultimo vostro intimo “anniversario” non si è compiuto, giusto?»
«Molto perspicace, M. Laffite: ora sapete perché il mio cuore è stretto dall’angoscia. Non è da lui farmi soffrire così: in tutti questi anni mi ha sempre amato teneramente e trattato come la sua regina. Per sparire così, o è fuori di sé o gli è capitato qualcosa di terribile»
Dopo aver pronunciato l’ultima frase Georgette cominciò a piangere sommessamente, con un modo discreto e gentile che affascinò il commissario Lafitte, che le porse il suo fazzoletto nuovo.
«Non perda la speranza, Mme Georgette: credo di aver intuito dove è finito M. Magritte e conto di riportarlo a casa al più presto.
Non si lasci andare e resista. Noi ora dobbiamo andare, con permesso.»
Georgette, dopo quelle parole precise e pacate, riprese luce negli occhi e circolazione sanguigna nelle guance.
«Che Dio la benedica, ispettore, se quello che prevede s’avvererà…grazie per la visita, messieurs. »
«Caro Valoux, gli elementi del dipinto sono evidenti, per quanto celati nell’inquietante quanto magistrale non-detto di Monsiuer Magritte. L’accenno al Signal de Botrange, la vetta più alta del Belgio (la cui cime fa da orizzonte e si coglie con lo sguardo dal ponte dell'Évêché) e ai tre pescatori che ritrovarono in Rue Bord de l’Eau la povera madre annegata…»
«Quella stradina che costeggia il fiume Sambre a Namur, nei pressi del ponte dell’Évêché: siamo quasi arrivati, Antoine, dove pensi che sia il nostro Magritte?»
«In un posto appartato vicino al luogo del ritrovamento di sua madre: tre giorni fa era il cinquantesimo anniversario del suo suicidio e starà senz’altro terminando il suo rituale di memoria, che per quest'occasione gli ha preso più tempo.
Secondo i resoconti dei nostri colleghi il cadavere di Madame Bertinchamps venne portato in una radura, in un vicino boschetto adiacente al ponte dell’Évêché, immortalato nel quadro di Magritte.
E lì lo troveremo, Paul.»
La scena che si presentò al loro sguardo nella radura era incredibile.
Magritte, inappuntabile nel suo completo da medio borghese con bombetta stava dipingendo un quadro che affascinò all’istante l’ispettore Lafitte.
Vi erano presenti molti dei temi che rendevano grande l’arte del suo pittore preferito.
La presenza della morte e dell'amore, Eros e Thanathos e dell'incomunicabilità tra esseri umani.
L'uomo in nero con la cravatta nera e la donna al suo fianco sembrano alludere anche al pittore e alla moglie Georgette e a un'altra possibile chiave di lettura (Magritte stimolava Lafitte alle più profonde immaginazioni): il bacio negato, i volti annientati da candidi sudari, il velo che separa, come la malinconia dell’artista che non riesce ad aprire un passaggio di comunicazione tra gli esseri e l’Essere.
Davanti al cavalletto c’era un manichino di donna a gambe aperte con il volto coperto da un lenzuolo.
«Buongiorno, messieurs. Lei deve essere il commissario Lafitte, non è vero? La conosco di fama e per via delle fotografie sui giornali e inoltre sono un appassionato di storie gialle e le devo confessare che sono un suo ammiratore.
So già che indagando ha scoperto il mio trauma adolescenziale.
Quell’orrore mi ha marchiato a fuoco nell’anima con quest’immagine terribile che continuamente ritorna nel mio cuore.
Prima di gettare mia mamma nella Sambre, mio padre sparì per qualche minuto in questo boschetto per fare un bisogno e io restai per una decina di minuti a contemplare il corpo strangolato di mia madre.
Il vento sollevò la camicia da notte di mia madre sul suo volto e restai lì a contemplare il suo corpo nudo per dei momenti eterni.
Sa, in quegli istanti diventai un pittore e da allora cominciai a rappresentare un unico tema ossessivo, un quadro eterno dal titolo “Non davvero ora non più”.
Quel diavolo di mio padre in una sera ha distrutto la mia innocenza di ragazzo e ha sgretolato il mio presente.
Era una montagna incantata e lui l’ha fatta esplodere e franare con la dinamite.
Niente più ora.
Il demòne assassino aveva anche già scritto il mio futuro: non davvero mai più.
Quella sera una fata pietosa scese nella mia anima – forse commossa da tanto orrore o forse adempiendo alla sua missione, chissà – e mi fornì uno strumento per liberarmi dal carcere del tempo che è sempre-già: la pittura.
Veda, M. Laffite, credo che ogni trauma stesso produca nell’anima umana l’oblio.
Il fatto è che la persona colpita da un trauma non si trova di fronte al dolore, ma è lui stesso dolore.
Negando il dolore negherebbe se stesso.
Il dolore non è un accidente eliminabile: esso sta alla base della vita. L’uomo potrebbe sopprimerlo solo negando la vita, quindi - se fosse possibile - mediante la ragione o il denaro o la tecnologia, tutti mezzi inutili e superflui.
Non c’è un mezzo materiale contro il dolore, poiché il dolore esprime già qualcos’altro, oltre l'umano.
Solo ciò che si esprime nella gioia può « rimuovere » ciò che si esprime nel dolore.
E la pittura può aprire un passaggio da questo mondo di violenza e orrore verso altre dimensioni di gioia, amore e contemplazione.
Solo in questo modo possiamo liberarci dal sudario dell’incomunicabilità che ci soffoca ogni giorno.
E ora, messieurs, vi chiedo solo qualche minuto di pazienza: finisco un paio di sfumature e poi torniamo da Georgette.
Ripagherò l’angoscia che le ho causato con il dono di questo dipinto.
Vi piace? Che titolo suggerite, messieurs?»
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L'AUTORE Mauro Banfi il Moscone
Utente registrato dal 2017-11-01
Visual storyteller, narratore e pensatore per immagini. Mi occupo di comunicazione tramite le immagini: con queste tecniche promuovo organizzazioni, brand, prodotti, persone, idee, movimenti. Offro consulenza e progettazione del racconto visivo per privati, aziende e multinazionali. Per contatti: zuzzurro.zuzzu@gmail.com
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Tutte le immagini sono di Renè Magritte, tranne la penultina "Il manichino di Magritte", opera di Mauro Banfi.
Il racconto è dedicato a Caribbean Caribù
E\' curioso come di uno stesso quadro si possano trarre impressioni differenti, anche se non infinite. Mi riferisco in particolare all\'ultimo, quello degli amanti velati. La prima impressione che ne ho avuto è quella, come dici, di una rappresentazione dell\'incomunicabilità, ma, paradossalmente, si potrebbe forse ricavarne l\'impressione opposta, specie se si concentra sulla posa rilassata delle due figure, più che sui volti invisibili, cioè di comunicazione, attraverso un bacio - o un sentimento - di qualcosa che non si può vedere e che conta più dell\'anonimato generale. Oppure, ancora, che quello che conta è il bacio, non chi si bacia. Oppure, ancora, che nel bacio (o nel sentimento) si smarrisce, anche magari solo per un istante, l\'identità. Infine è forse possibile una quinta lettura e cioè che il pittore abbia celato i volti senza avere un\'idea precisa, lasciando allo spettatore, entro certi limiti, di leggere quello che più gli piace - o che più teme. Personalmente quest\'ultima è un\'idea che mi stuzzica abbastanza. Gli altri quadri, a mio parere, sono un po' più univoci.
Ciao Mauro
Un pezzo pregiato questo.
Riesci spesso a portare in vita artisti, figure mitologiche o animalesche e qui hai dato una piega agli eventi con attenzione al significato che hanno nel subconscio e non tanto per quanto riguarda i fatti in sé.
Mi è molto piaciuto.
Un ottimo testo, davvero. Leggendo mi domandavo quando di ciò che scrivevi era reale e quanto, piuttosto, frutto della tua fantasia, poi ho letto la la tua risposta a GVM e scopro che avevo torto a pensare a un vantaggio della fantasia, perché c'era molto, moltissimo di reale negli eventi raccontati. Direi che qui la tua capacità di render vive e vivide le biografie dei personaggi storici rendendole narrativa autentica è al suo meglio. E francamente al contrario di Peppe io non ho trovato pesanti le descrizioni dei quadri, che ho invece apprezzato appieno.
D'altronde credo che tutto sia sempre molto relativo. Difetti su cui lavorare, dici? Certo, tutti noi abbiamo dei difetti, ma se c'è una cosa che sto capendo in questi anni e che regole non ne esistono. Tanto per fare un esempio che ho in mente in questi giorni, ho appena terminato di leggere un romanzo di un noto scrittore italiano specialista in romanzi storici, ambientato nell'antica Roma: ora se c'è una cosa che so che in genere insegnano nei corsi di scrittura creativa e che pure qui su Piaf o su Neteditor qualcuno (penso ad esempio ad Antonino Giuffrè oppure a Dottor Who) ripete(va) fino alla nausea, è che il giudizio personale dell'autore non dovrebbe mai emergere direttamente ma che bisognerebbe sempre lasciar parlare i fatti. Vuoi che il personaggio tot sia uno stupido? Ok, se tu, autore sei bravo, farai sì che il lettore leggendo come costui si comporti, pensi "orca, ma quanto è stupido questo." Eppure l'autore in questione, benché, bada bene, insegni proprio lui scrittura creativa, nel corso del romanzo irrompe direttamente "a gamba tesa" nella storia non facendo altro che ripetere, "Caio Sempronio era uno stupido che eccetera" oppure "Pinco Pallino era una veramente una carogna eccetera" anzichè limitarsi a far evincere tali limiti dal loro modo di comportarsi. Giusto, sbagliato? Lui commette proprio questo errore classico ma pubblica per i grandi editori e, ribadisco, addirittura insegna scrittura creativa. E allora? Vabbè, io sono convinto da sempre dell'inutilità di quei corsi, ma sarei comunque curioso di sapere come tratta la questione con i suoi studenti. Del resto la sua trama nel complesso fila e dubito che molti altri lettori si siano infastidi come il sottoscritto nel leggere quei giudizi trinciati sui personaggi che d'altronde anche l'editor della Rizzoli ha lasciato passare.
Tornando a noi, essere didascalico è davvero un difetto? Solo quando appensantisce troppo la lettura, ma la mia lettura non è risultata appesantita, garantisco, e quindi le tue descrizioni non mi sono affatto parse didascaliche, eh sì, davvero tutto è relativo. Tant'è che mi sto convincendo sempre di più a non esprimere più giudizi negativi sugli scritti che leggo sul web: se non mi convincono almeno, diciamo, all'80% mi sa che preferirò non commentarli, tanto chi sono io per sparare giudizi? Nessuno! E quel che parebbe sbagliato o poco convincente a me potrebbe invece, come in effetti talvota è accaduto, apparire giusto e convincente ad altro, magari anche a tutti gli altri. E allora? Ripeto, tutto è relativo.
Non che con questo voglia criticare Peppe per aver espresso il suo parere ci mancherebbe, è anzi giusto che ci si possa sempre esprimere liberamente, dico solo che io non sono più così convinto di volerlo fare, sì è vero, ho sempre sostenuto di preferire una stroncatura ai miei racconti piuttosto che il silenzio, che di certo non mi aiuta a capire se qualcosa in un mio scritto non va, eppure, non so, in questo momento non sono più convinto a criticare.
Un piccolo appunto però non resisto e me lo permetto (tanto lo sai, ormai, visto che sto commentando, qui sono convinto almeno all'80): "soffocò la moglie soffocandola con la tovaglia". Ecco, questa ripetizione è veramente brutta, io uno dei due verbi soffocare lo sostituirei. Ciao.