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"PUNTO E A CAPO" Racconto Giallo / Noir / Thriller
di Vecchio Mara
pubblicato il 2018-06-25 22:44:59
L’estate dell’acqua
Guardò fuori dalla finestra, e come ogni mattina la pioggia era calata d’intensità; ora soltanto qualche rara goccia disegnava cerchi nelle pozzanghere. Allora la vecchia dal volto senza età, con i capelli color cenere, stopposi e arruffati, che indossava pesanti paludamenti neri, tirò lo scialle sopra la testa e uscì per recarsi alla posteria.
Era da fine maggio, e si era ormai a inizio luglio, che la pioggia cadeva incessantemente sulla valle costretta fra i monti dove, anche nelle giornate più luminose, il sole arrivava appena a lambire la cuspide del campanile a cavallo del mezzodì, prima di nascondersi dietro i picchi a ovest.
E come ogni mattina, come se il tempo, o per meglio dire il maltempo, lo avesse concordato con gli abitanti del borgo, alle nove e trenta la pioggia smise quasi di cadere, concedendo la solita mezz’ora abbondante di tregua prima di riprendere a scrosciare con rinnovata energia.
«Coma va, Ernestina?» domandò la titolare della posteria mentre, dopo averla tagliata, si apprestava a infilare una fetta di pane di grano saraceno dentro il sacchetto.
«Con questo tempo, alla mia età come vuoi che vada. Son dolori dappertutto, cara Genoveffa», rispose Ernestina con voce arrochita, levando lo scialle dalla testa.
«Le previsioni dicono che sarà così per altri cinque giorni almeno», commentò Genoveffa mentre tagliava del formaggio aromatizzato.
Ernestina scosse la testa. «Questa è un’altra estate dell’acqua… pioverà fino a settembre!» sentenziò guardando dalla vetrina le cime dei monti incappucciate da nuvole nere.
In quel momento vide transitare, lentamente, una macchina lungo la via. “Eccolo lì, stavolta è arrivato anche l’altro”, pensò incupendosi, riconoscendolo.
«Oddio! Ernestina, non me lo dire, ti prego, non vorrei che andasse a finire come dieci anni fa», ribatté terrorizzata Genoveffa mentre incartava il formaggio.
Ernestina pagò, si tirò lo scialle sopra il capo, prese il sacchetto del pane, il formaggio appena incartato e li infilò nella capace tasca anteriore del grembiule. Poi, avviandosi alla porta dopo aver saldato il conto, usando un tono grave rincarò la dose: «Peggio! Questa volta andrà molto peggio… temo un disastro paragonabile a quello di sessantacinque anni fa!»
Ernestina, che all’epoca aveva pochi mesi di vita ed era stata l’ultima creatura a vedere la luce in quel borgo di pastori (era dunque la più giovane anima viva presente in quel luogo desolato destinato a spegnersi lentamente per mancanza di ricambio generazionale), si ricordava dell’alluvione solo per sentito dire. Ma rammentando che il torrente saturo di acqua, fango e detriti, tracimando aveva invaso e sventrato la parte bassa del borgo, e che non era più stato ricostruito in previsione di altre piene devastanti, non diede peso ai timori manifestati dalla donna più anziana del paese. Paese che ormai contava poco più di trenta anime: vecchi pastori che ora si trovavano sugli alpeggi con le bestie, e le loro altrettanto vecchie consorti che li attendevano dentro case di pietra, cupe e umide, arroccate nella parte alta del paese, dunque, presumibilmente al sicuro.
Ernestina aprì la porta, si voltò e concluse: «Ieri mattina ho visto Primo Sampieri attraversare il paese in macchina e prendere la strada del vecchio mulino… Poco fa ho visto suo fratello Secondo passare qui davanti. Dieci anni fa, quando l’alluvione aveva riempito le cantine, c’era soltanto Secondo, su, al mulino; rammento che era arrivato per i funerali della madre e poi era rimasto per un paio di giorni e se n’era andato dopo l’alluvione. Nessuno dei due si è fatto vivo per rendere l’onore dovuto al loro vecchio, la settimana scorsa. Ma ora sono entrambi al mulino, pronti a scannarsi per l’eredità… come aveva fatto sessantacinque anni prima il loro padre con il proprio fratello per decidere a chi spettasse mandare avanti quel maledetto mulino, dopo che il nonno di questi due disgraziati se n’era andato all’inferno!»
Genoveffa la stette ad ascoltare esprimendo nello sguardo un misto di interesse e incredulità. E quando Ernestina se ne fu andata, si domandò: «La maledizione dei Sampieri… chissà chi fu il primo a mettere in giro ‘sta storia?» Si fece il segno della croce e concluse in un sospiro: «Gesù, fa che sia solo una storia».
Pur non credendo alla storia dell’anatema lanciato dal pulpito da don Fernando, quei due gemelli nati poco prima di lei l’avevano inquietata sin dai tempi della scuola. Avevano condiviso la stessa aula dalle elementari alle medie, Genoveffa e i fratelli Sampieri, e li ricordava sempre immusoniti e taciturni. Non avevano mai legato con gli altri alunni, né durante le ore di lezione né tantomeno durante la ricreazione: l’intervallo lo trascorrevano in un angolo del cortile parlando fitto tra di loro, tacendosi all’istante se qualche compagno si avvicinava. «Chissà cosa avevano di così misterioso da dirsi?» si domandava ora Genoveffa.
Le sfuggì un moto di riso, ricordando che suo padre, che lavorava alla centrale elettrica sita nel paese in fondo alla valle, dove si trovavano anche gli istituti scolastici, si era preso l’impegno di accompagnare lei e i gemelli ogni mattina e di riportarli in paese al termine delle lezioni. E che questi, seduti sul divano posteriore della macchina, quando suo padre chiedeva loro qualcosa riguardante la scuola o la salute dei loro genitori, rispondevano con monosillabi simili a grugniti. «Va beh, erano un po’ strani, ma non credo che c’entrasse col fatto che Bernardo si fosse rifiutato di farli battezzare.» Ci pensò su. «Potrebbe darsi che negli anni passati lontano da qui, siano migliorati… anche se dubito fortemente che possa essere accaduto», tirò le somme alla fine.
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Primo e Secondo Sampieri erano fratelli gemelli, nati un mese prima che Ernestina vedesse la luce. E quando il prete si era recato al mulino per chiedere al padre con quale nome intendesse battezzare i due. Si era sentito rispondere da Bernardo, che se Dio voleva l’anima dei suoi figli avrebbe dovuto far piovere per sei mesi di fila, dato che tra l’estate e l’autunno dell’anno prima erano caduti soltanto pochi millimetri di pioggia, che l’inverno era stato a sua volta avaro di precipitazioni nevose e che ora, all’inizio dell’estate, erano quaranta giorni che, dopo mesi incredibilmente siccitosi, non poteva più macinare il grano perché il torrente ormai in secca non riusciva più a smuovere la ruota del mulino; oppure, se proprio non gli scappasse di far piovere, in subordine si sarebbe accontentato di un piccolo miracolo, vale a dire: che il buon Dio trovasse il modo di far girare la ruota del mulino senz’acqua. E che pertanto, in attesa dell’acqua o di un miracolo, avrebbe assegnato loro un nome provvisorio, affidandosi all’ordine di uscita dall’utero materno. Aggiungendo che: se entro tre giorni, Dio o i santi Pietro e Andrea non avessero soddisfatto la sua più che legittima richiesta, si sarebbe potuto scordare di battezzare i suoi figli con il nome dei due apostoli.
«Stai bene attento, Bernardo, a farti beffe del nome di Dio, potresti pentirtene amaramente, un giorno», lo aveva messo in guardia il prete, usando il tono del buon pastore.
«Sì, come no», aveva sbuffato Bernardo. E voltandogli le spalle, mentre si stava allontanando aveva concluso in tono sarcastico: «Visto che lei è culo e camicia con quello che sta lassù, preghi perché piova se vuole battezzare i miei figli, don Fernando!»
«Qualcosa non va?» aveva domandato poi, mentre il prete stava lasciando la proprietà, vedendo il fratello scuotere la testa sconfortato sull’uscio del mulino.
«Nostro padre sta morendo… e tu che fai? Ti metti contro pure Dio!», lo aveva redarguito Aldo, il fratello più giovane di un anno.
«Il vecchio è campato fin troppo, ha avuto il tempo di veder morire quella povera donna di nostra madre, e rammento di non averlo visto versare una sola lacrima quel giorno. E ti garantisco che io lo ripagherò con ugual moneta», aveva ribattuto in tono aspro, con sguardo carico di odio. «E ora vai pure a dirglielo, al vecchio bastardo! Che non vedo l’ora che tiri le cuoia!» aveva concluso digrignando i denti e serrando i pugni, spaventando il fratello.
Trascorsi i tre giorni, Bernardo aveva guardato in alto. Non una goccia, nemmeno per sbaglio, era caduta da un cielo incredibilmente terso. «Vuoi la guerra, eh!» aveva grugnito fuori di sé, alzando il pugno. «L’avrai! L’avrete! Tu, i tuoi santi e il tuo prete!» aveva poi concluso in tono iracondo, inforcando la bicicletta.
Tirando moccoli irriferibili era sceso in paese come un fulmine, si era precipitato in comune e, pestando un pugno sulla scrivania del sindaco, facendolo sobbalzare, aveva tuonato: «Sono qui per registrare all’anagrafe i miei due gemelli: Primo e Secondo Sampieri!»
Il sindaco, che aveva saputo da suo fratello Aldo della diatriba con don Fernando, aveva provato a domandare, timidamente: «Quando li farai battezzare?»
Bernardo gli aveva puntato contro l’indice. «Tu! Pensa a mandare avanti la tua di parrocchia, non quella del prete!» aveva urlato accendendosi in volto. «Tira fuori le carte e dimmi dove devo firmare! Svelto! Che non ho tempo da perdere, io!»
Il sindaco, ammutolito, aveva preso da un cassetto della scrivania due moduli, li aveva compilati in fretta e furia e glieli aveva fatti firmare.
Alla fine Bernardo lo aveva salutato con un: «Ciao, sindaco!» in tono sprezzante, e se n’era andato sbattendo la porta dell’ufficio.
Il giorno dopo, il primo di una serie ininterrotta di violenti temporali si era abbattuto sulla valle.
Bernardo, osservando con fare meditabondo l’acqua all’interno del piccolo bacino sfiorare le pale nella parte bassa della ruota, aveva calcolato che se avesse continuato a piovere con quella intensità, entro tre giorni avrebbe potuto riprendere a macinare il grano.
“Come mi devo comportare, ora?” si era chiesto. “Forse Dio, seppure in colpevole ritardo, ha esaudito la mia richiesta… Già, ma se invece l’avesse esaudita qualcun altro? Qualcuno che non va troppo d’accordo con quello che sta lassù? Battezzando i gemelli finirei per irritarlo, e allora chiuderebbe il rubinetto all’istante… Ma se non fosse stato qualcun altro a far piovere, e io non li facessi battezzare, sarebbe Dio a chiudere i rubinetti… Davvero un bel casino… Cosa posso fare?”
Consapevole che don Fernando, che ora si trovava al capezzale del padre che aveva richiesto la sua presenza quella mattina per confessare i suoi peccati, avrebbe sicuramente insistito per battezzare i gemelli, si stava macerando nel dubbio.
Al termine di una lunga e meditata riflessione, Bernardo aveva deciso che se avesse continuato a piovere per tre giorni di fila, avrebbe lasciato le cose come stavano. Altrimenti, confidando che Dio nella sua infinita bontà non se la fosse legata al dito, sarebbe tornato sui suoi passi e avrebbe fatto battezzare i gemelli.
«L’accordo scadeva ieri! Comunque, deciderà la pioggia, poi le farò sapere. Buona giornata, don Fernando!», aveva tagliato corto lasciandolo senza parole, quando questi, uscendo dalla camera del padre, gli aveva rammentato i termini dell’accordo.
E la pioggia, continuando a cadere incessantemente ben oltre il termine stabilito da Bernardo, aveva sentenziato che Primo e Secondo Sampieri non sarebbero stati battezzati, né allora né mai.
Allora una vecchia tutta casa e chiesa, che non era riuscita a esaudire il desiderio di diventare madre nonostante le preghiere prodotte in quantità industriale nel corso degli anni e l’enorme mole di candele accese davanti all’altare, aveva iniziato a insinuare il sospetto che Bernardo non poteva farli battezzare, per il semplice fatto che aveva stretto un patto con il demonio in persona per poter diventare padre di due gemelli. E aveva avuto gioco facile a far presa sull’ignoranza credulona di più d’una delle donne con le quali era solita interloquire prima, dopo ma anche durante le funzioni religiose, ribattendo alle loro deboli obiezioni, dicendo che se fino ad allora non si erano avuti parti gemellari, un motivo doveva pur esserci.
«Per salvarsi l’anima, Bernardo ha cacciato in malo modo i figli del diavolo dal mulino, intimando loro di non farsi più vedere, altrimenti li avrebbe presi a fucilate», avrebbero commentato molti anni dopo, quando il fatto sarebbe accaduto, i vecchi del borgo, riportando agli onori della cronaca una leggenda nera quasi dimenticata.
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Il giorno dopo Silvano, il marito settantaduenne di Genoveffa, si caricò sulle spalle lo zaino pieno di formaggi, salutò i due fratelli, di due e tre anni più giovani, e scese per rifornire la posteria della moglie.
«Come va su all’alpeggio?» domandò lei mentre toglieva le forme dallo zaino.
«Un disastro!» rispose Silvano in tono preoccupato. «Ci sono degli abeti piegati verso valle… se continuerà a piovere con questo ritmo, ho paura che un pezzo di bosco verrà giù trascinando a valle anche il pascolo che sta dietro.»
«Oddio, potrebbe finire sulle case?» chiese spaventata, portandosi la mano alla gola.
«No, stai tranquilla», la rassicurò usando un tono pacato, «è dall’altra parte del torrente. Male che vada, seppellirà i ruderi sull’altra sponda.»
«Potrebbe essere anche peggio di sessantacinque anni fa», commentò Genoveffa, rammentandosi di quello che, il giorno prima, le aveva detto Ernestina.
«Fare peggio di allora, è pressoché impossibile; oramai non ci sono rimaste né stalle né case nella parte bassa.»
Genoveffa ci pensò su: temeva che il marito si sarebbe messo a ridere. Ma alla fine si aprì. «Ernestina…», esordì tacendosi subito dopo.
«Ѐ morta?» domandò Silvano.
«Ma no! Che vai pensando. Solamente che ieri è stata qui, e ci ha tenuto a informarmi che i fratelli Sampieri sono in paese.»
Silvano non rise. Aggrottò le spesse sopracciglia grigie. «La profezia di don Fernando», commentò, rammentando le storie che, nelle interminabili giornate su all’alpeggio, si raccontavano i pastori.
Il tono preoccupato finì per agitare la moglie. Allora Silvano provò a rassicurarla. «Ѐ solo una storia come tante altre tramandate da generazioni. Storie che i pastori si raccontavano come passatempo negli alpeggi. Le conosci anche tu, sono storie prive di fondamento, non c’è nulla di vero.»
«Sì… le conosco…» confermò, tentennando, Genoveffa. «Ma questa pioggia che sembra non finire più… ti fa sembrare vere anche le favole nere che ci raccontavano da bambini.»
«Ecco, appunto», fece Silvano, alzandosi dalla sedia. «Una favola, questo è. Ora devo andare, ci vediamo fra tre giorni. Ciao, Genoveffa», concluse rimettendo lo zaino, ora riempito con il pane da portare su all’alpeggio.
Genoveffa lo seguì con lo sguardo, fino a quando non lo vide prendere il sentiero e immergersi nel bosco. Allora, mentre sistemava i formaggi sul banco, pensò che: “La profezia di don Fernando, sarà pure una favola… ma che il paese si sia come rinsecchito, e che dopo di me non ci siano più state nascite a rallegrare il focolare, è un fatto acclarato… purtroppo”.
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Il padre di Bernardo e di Aldo, sentendo l’alito della morte soffiare accanto al letto (più probabilmente da sotto il letto, dove aveva sistemato la bara di abete grezzo che si era fatto fare su misura dal falegname del borgo anni prima, quando questi aveva dovuto realizzarne una in fretta e furia per sua moglie, non perché temesse di seguirla a breve ma perché comprandone due poteva tirare sul prezzo), aveva deciso di confessare tutti i suoi peccati; questo aveva detto ai suoi figli che, vedendo don Fernando far visita al moribondo un giorno sì e l’altro pure con l’attrezzatura da padre confessore e da estrema unzione chiusa dentro una capace borsa nera di cuoio, oltre a chiedersi di quali e quanti peccati si dovesse sgravare, avevano domandato in tono sarcastico al prete se la borsa contenesse anche il confessionale ligneo della chiesa.
In verità, quel vecchio furfante aveva impiegato poco più di dieci minuti, e soltanto il primo giorno, per sciorinare tutti i peccati che gli passarono per la testa; anche quelli che non avrebbe mai potuto commettere, aveva confessato, temendo di tralasciarne qualcuno. Gli altri giorni li passava a recitare il rosario insieme al prete, a dettargli il testamento, a farselo rileggere e infine, con mano tremante a porre in calce la sua firma. Testamento che ogni giorno, don Fernando si vedeva costretto a stracciare per redigerne uno nuovo intestato all’altro figlio; questo perché quello a cui aveva destinato tutti i suoi beni il giorno prima, al mattino non lo aveva salutato con il dovuto rispetto. Così, l’eredità venne assegnata tramite la riffa testamentaria al figlio più fortunato.
Il vecchio patriarca, dopo trenta giorni di agonia e ripensamenti testamentari, si era spento nella notte del sabato.
La domenica don Fernando, dovendo servire messa al mattino nelle vesti di parroco, era solito svolgere il suo compito da notaio nel pomeriggio.
Così, quel pomeriggio, sotto la pioggia battente che cadeva incessante dal giorno in cui il patriarca dei Sampieri aveva deciso di confessare tutti i peccati del mondo e anche qualcuno in più, borsa stretta nella mano destra, ombrello nella sinistra e scarponi da montanaro ai piedi, sbuffando come una locomotiva a vapore aveva risalito il ripido sentiero che, in poco meno di un chilometro, collegava la canonica al mulino dei Sampieri.
Grazie alla pioggia che aveva riempito il piccolo bacino artificiale, la ruota del mulino aveva ripreso a girare. Così don Fernando non si era preoccupato trovando l’uscio aperto e la casa deserta: sapeva, avendole viste la mattina a messa, che la moglie di Bernardo era scesa in paese dalla madre portandosi dietro i due gemelli, e il rumore da rotolamento della pesante macina di granito era il segnale inequivocabile che i due figli del Sampieri erano impegnati a recuperare il lavoro arretrato.
Ma quando era entrato nella camera e aveva trovato il letto vuoto, subitamente si era abbassato per guardare di sotto e non trovando la bara al solito posto, aveva capito che il vecchio era passato a miglior vita. Allora si era precipitato nel mulino e aveva chiesto ai due dove avessero sistemato la salma.
Dopo averlo accompagnato all’esterno, Bernardo aveva indicato un tumulo di terra smossa all’inizio del bosco. Al che, don Fernando era sbottato dicendo che i morti andavano prima benedetti e poi sepolti dentro il camposanto, non all’interno del bosco senza neanche una croce per indicare il luogo dove giaceva il loro padre.
Bernardo aveva scrollato le spalle assicurando che così aveva voluto il suo vecchio e che lui non aveva tempo da perdere né con i morti né con i vivi, poi si era voltato ed era tornato al lavoro, lasciando al prete il compito di benedire il tumulo e recitare un’orazione funebre.
Prima di andarsene, don Fernando si era premurato di informarli che il loro padre aveva redatto un testamento nel quale indicava come erede unico dei suoi beni il figlio Aldo. Mandando su tutte le furie Bernardo, che essendo il primogenito riteneva spettasse a lui entrare in possesso dei beni paterni. E già lì, i due avevano iniziato a litigare di brutto, e se le sarebbero date di santa ragione se don Fernando non fosse intervenuto dicendo che, appena la pioggia glielo avrebbe consentito, sarebbe sceso in città a far valere le ragioni di Aldo depositando le ultime volontà di suo padre da un notaio che avrebbe poi provveduto a informare l’ufficio del registro.
Ma la pioggia non aveva nessuna intenzione di smettere, e l’intervento di don Fernando era servito solamente a rinviare il tragico epilogo di qualche giorno.
Quando l’enorme piena era precipitata a valle con un rombo terrificante, oltre a tronchi schiantati e pietre, aveva trascinato con sé anche le bestie che pascolavano lì accanto… ma non solo.
In un silenzio irreale, i soccorritori spostavano tonnellate di fango e detriti, di carcasse di mucche e pecore ammassate sopra le macerie della parte bassa del borgo, nella speranza di trovare qualcuno vivo. Non ci furono superstiti. Ma a conclusione della tragica conta, calcolando i residenti che si sapevano all’interno delle case, la somma era risultata essere di una vittima in più di quelle preventivate.
Aldo Sampieri era finito anch’esso dentro il gorgo mortale.
Tre giorni dopo, sotto un cielo finalmente terso, don Fernando aveva pronunciato l’orazione funebre per le sette vittime dell’inondazione all’esterno della chiesa, davanti ai volti affranti dei superstiti. Un solo volto non gli era riuscito di vedere in mezzo a tanta costernazione; quello di Bernardo Sampieri che se n’era restato su, a sistemare il bacino del mulino danneggiato dalla piena; eppure c’era anche la bara di suo fratello in mezzo a quelle appoggiate sul sagrato che don Fernando si apprestava a benedire.
Quella sera, mentre don Fernando era intento a bruciare l’ormai inutile testamento, un pastore aveva bussato alla sua porta chiedendo di essere confessato.
Dopo la confessione, don Fernando aveva insistito perché il pastore denunciasse il fatto: essendo legato dal segreto della confessione lui non lo poteva fare. Ma questi aveva risposto che non lo avrebbe fatto, perché Bernardo era suo cugino, e che, nonostante la notizia fosse ormai di pubblico dominio non avrebbe trovato nessuno disposto a denunciarlo, perché in paese discendevano tutti dallo stesso ceppo.
L’uomo aveva confessato che lui e altri pastori, mentre al riparo nel bosco osservavano atterriti la piena portarsi via il loro bene più prezioso, avevano visto sulla sponda opposta Bernardo portare in spalla il corpo del fratello e lanciarlo dentro il torrente in piena.
Don Fernando aveva rimuginato sul da farsi per l’intera notte, e il mattino seguente era andato di casa in casa, nel vano tentativo di convincere i pastori o i loro familiari a denunciare il fatto all’autorità costituita.
Ottenendo immancabilmente la stessa risposta: «Mi spiace, don Fernando, non lo posso fare, siamo parenti!»
Così, la domenica mattina, durante la messa in suffragio delle vittime, don Fernando dal pulpito aveva espresso con asprezza inusitata il suo disappunto, concludendo lanciato il suo anatema, usando un tono rabbioso e profetico: «Non nascerà nessun nuovo germoglio dal vostro ceppo marcio! Voi sarete gli ultimi rappresentanti di una stirpe dannata! Che finirà i suoi giorni sepolta nel fango dell’inferno, nella sua interezza! Così, com’è giusto che sia… Amen!»
Poi era sceso dal pulpito e, davanti agli sguardi allibiti dei suoi parrocchiani, si era tolto con calma i paramenti sacri e aveva lasciato la chiesa attraversando in silenzio la navata. Quello stesso mattino aveva raccattato le sue quattro cose, le aveva infilate nello zaino e si era incamminato verso valle. Non lo avrebbero più rivisto.
“Nella sua interezza”, era questa espressione che, estrapolata dal contesto e traslata di bocca in bocca negli anni a venire, aveva trasformato quella rabbiosa accusa in una profezia di sventura.
Era questa espressione, oltre alla nomea di “figli del diavolo” che i due gemelli si portavano addosso, praticamente da sempre, come un marchio d’infamia, che disturbava non poco i pensieri di Genoveffa. Già, perché ora, per la prima volta dopo molti anni, e come non era stato durante l’ultima alluvione, i superstiti della stirpe dannata, con l’arrivo di Secondo Sampieri erano tutti racchiusi in quel fazzoletto di terra compreso tra il mulino e il borgo… inoltre, aveva ripreso a piovere come non mai.
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Secondo Sampieri parcheggiò la macchina all’esterno del mulino, accanto a quella del fratello. Spense il motore, tirò il freno a mano, scese e incurante della pioggia si fermò in mezzo allo spiazzo erboso. Volgendo lo sguardo all’intorno si mise a osservare con sguardo malinconico i luoghi dove era nato e cresciuto, prima di abbandonarli insieme al suo gemello.
Un brivido gli corse lungo la schiena arrestando lo sguardo sulla porta del mulino: suo fratello era là che lo osservava.
I due erano praticamente identici, e questo di primo acchito gli diede l’impressione di vedere la sua immagine riflessa in uno specchio. Poi notò l’abbigliamento casual del tutto differente dalla severa grisaglia che aveva indossato per l’occasione, e, soprattutto, i capelli rasati a zero, a differenza del candore che circondava la sua nuca e i lati del capo: rimasugli di una folta capigliatura corvina mietuta anni addietro dalla calvizie.
Avanzò serrando le labbra per trattenere la commozione e quando fu a un alito dal fratello si arrestò. I due rimasero immobili per un lungo, interminabile attimo, poi si abbracciarono in silenzio.
Abitando uno a Roma e l’altro a Milano erano lustri che non si incontravano. Ma la verità vera era un’altra: si sfuggivano per l’agghiacciante promessa che si erano fatti l’un l’altro in un momento di crisi esistenziale.
«Eccoci qua», disse in un sospiro Secondo, staccandosi dal fratello. «Sei qui da ieri?»
«Sì», rispose Primo. Indicò il camino che fumava. «Dovevo portare su le vivande per preparare l’ultima cena.»
Secondo annuì, rattristandosi.
«Vieni, entriamo», disse allora Primo. «Temevo che non saresti venuto», aggiunse mentre percorrevano il corridoio per raggiungere la cucina.
«Quando mi hai telefonato, ci ho riflettuto; l’ultima volta che sono stato quassù, più di dieci anni fa, ti ho atteso invano… Quella volta fui io a chiederti d’incontrarci quassù, perché non eri venuto?» domandò Secondo mentre osservava il fratello alimentare la stufa a legna sopra la quale bollivano due pentole che spargevano aromi di carne, erbe aromatiche ed altri ingredienti nell’ambiente.
«Era un funerale», rispose controllando la cottura della carne con un forchettone.
«Di nostra madre», precisò contrariato Secondo.
Primo volse lo sguardo su di lui. «Perché non mi hai chiamato quando è morto nostro padre?»
«Per il semplice fatto che non mi interessava venire fin quassù per accompagnarlo al camposanto», rispose serafico.
«Appunto. Avresti fatto bene a non accompagnare nemmeno lei!» ribatté acido l’altro.
«Lei non l’avrebbe meritato… lei era diversa…»
«Diversa!» proruppe Primo, interrompendolo. «Diversa da cosa?! Lascia che ti rinfreschi la memoria! Quando quello ci bastonava, non ricordo che lei intervenisse! Quando quello ci dava dei bastardi, dei figli di una puttana ingravidata dal demonio… lei… lei non faceva un plissé! Non una lacrima l’ho vista versare; nemmeno il giorno che quello ci ha sbattuto fuori di casa dicendoci di andare a cercarci un lavoro, e che se ci avesse rivisto bazzicare intorno al mulino, ci avrebbe preso a fucilate!»
Secondo abbassò il capo. «Era terrorizzata», mormorò.
Primo scrollò la testa. «Esistono animaletti alti un soldo di cacio pronti a gettarsi tra le fauci di una tigre per difendere la loro prole… e una madre abbassa la cresta di fronte a un marito che sbraita un po’ più forte del solito? No! Troppo facile! Non era terrorizzata… era nata male! Come tutti quelli procreati quassù, aveva una tara, la tara del male dentro la testa. E il nostro percorso di vita, ne è la dimostrazione lampante. Lo sai che è così, altrimenti oggi non saremmo qui.»
«Eppure, erano ben altri i progetti che facemmo lasciando il paese», rammentò Secondo. «Poi la città, le sirene del guadagno facile, ci hanno allontanato: tu hai preso una strada, io un’altra, entrambe sbagliate. Lo sapevamo, ma nelle lunghe telefonate notturne, ci dicevamo: “Ancora un anno, poi cambiamo vita”. E abbiamo continuato a fregare il prossimo per rimpinguare il nostro conto corrente. Ma non è facile rinunciare all’attico con vista duomo, nel tuo caso. O all’attico con vista sui fori imperiali, nel mio. E così, abbiamo continuato a imbrogliare vecchi e nuovi poveri disgraziati e a contare il denaro che riuscivamo a succhiare dai loro conti. E alla fine di questa scorribanda vomitevole, cosa ci è rimasto? Null’altro che vecchi rancori, rimorsi e una solitudine opprimente che il denaro accumulato non riesce ad allontanare. E così, eccoci tornati dove tutto ebbe inizio, per tener fede a una promessa e trovare il coraggio di farla davvero finita una volta per tutte!»
«Siedi, l’ultima cena è pronta», annunciò Primo in tono grave, togliendo una pentola dal fuoco. Fece una pausa e concluse in tono amaro: «Anche se, tecnicamente, si dovrebbe chiamare ultimo pranzo… pure questo abbiamo sbagliato, siamo proprio due falliti!»
Durante il pranzo, notando il fratello assorto nei suoi pensieri, gli chiese: «Secondo, a cosa stai pensando?»
«Al giorno che ci cacciò da casa… urlandoci dietro che non eravamo figli suoi ma del demonio» rispose. Sorrise, amaro, e concluse: «Chissà se lo pensava veramente.»
«Era ubriaco fradicio», tagliò corto Primo.
«Questo non lo assolve!» sbottò Secondo. Guardò nel piatto e proseguì in tono rancoroso: «E poi, se c’era un diavolo non poteva che essere dentro l’anima di chi per mettere a tacere le voci di un presunto, ridicolo adulterio, venuto fuori durante una lite all’osteria, non ha trovato di meglio che sbattere i figli fuori di casa!»
«Uhm…» fece Primo alzando un sopracciglio. «Adulterio con chi? Con il demonio? Ma se il demonio era lui! E lei era la sua sodale!» Ci pensò su. «E poi, il nostro poco edificante percorso di vita, sta lì a certificare che non siamo poi così diversi da quei due disgraziati!» Trasse un lungo sospiro. «Siamo sangue del loro sangue… purtroppo!»
Secondo annuì. «Finiamo di mangiare», concluse in un sospiro, prendendo la forchetta.
Dopo aver pranzato, i due, percorrendo i corridoi e gli ambienti del mulino, ricordarono i giorni allegri, davvero pochi, e quelli tristi vissuti in quel luogo.
«Le quattro», annunciò Primo, guardando l’orologio che portava al polso. «Io sono pronto… ma se non te la senti…» concluse lasciando la frase in sospeso.
Secondo guardò dalla finestra. «Piove che Dio la manda», osservò.
«Sì, e allora? Temi di rovinare il tuo bel completo da finto broker di successo?» domandò Primo in tono sarcastico.
«Non temo nulla!» lo rassicurò con tono fermo Secondo. Rammentandogli che: «Di broker in famiglia ce n’è uno, e non sono certamente io!»
«Ah! Ti sei offeso… chiedo venia, fratellino», replicò in tono sarcastico Primo. «Ma tu, cosa sei? Qual è il tuo mestiere? Il politico? Il diplomatico, o cos’altro?»
«Il facilitatore.»
«Il facilitatore», ripeté Primo corrugando la fronte. Rifletté un attimo e tirò le somme. «In pratica, faciliti le fregature più complesse… sbaglio?»
«Non sbagli», confermò in tono laconico Secondo. Indicò la porta. «Ora sei tu che la stai tirando per le lunghe… io sono prontissimo e determinatissimo. Quando vuoi, fratellone!»
Uscirono, si fermarono sotto la grondaia e lì rimasero a osservare il torrente che correva impetuoso alzando sbuffi di spuma scura.
«Dammi la mano!» esclamò Secondo in tono perentorio, allungando la sua.
Primo gliela stava stringendo. «Aspetta!» fece all’improvviso ritraendola.
«Cosa c’è?»
«Finiamo alla grande, facciamo girare la ruota», rispose Primo tornando dentro.
Secondo lo seguì. «Vado ad aprire la chiusa!» esclamò aprendo una porticina che conduceva al bacino che alimentava le pale della grande ruota.
Primo, annuendo, si premurò di sbloccare gli ingranaggi della macina.
«Fatto!» esclamò Secondo, rientrando.
La ruota in granito della macina iniziò a rotolare, dapprima lentamente poi sempre più velocemente.
I due, osservando con gli occhi meravigliati di un tempo la pesante ruota di granito compiere le sue evoluzioni, si rividero bambini. Ora il rotolamento faceva vibrare l’impiantito di cemento, mentre il rumore della pietra che correva sempre più velocemente all’intorno diventava rombo assordante. Il rombo crebbe a dismisura: ora sembrava provenire dall’esterno e coprire quello della macina in movimento. I due si guardarono smarriti, poi corsero fuori.
«Guarda là! Sta venendo giù la montagna!» gridò Primo, indicando la frana che trascinando pascoli, bestie e pastori si apprestava a travolgere l’abetaia.
Secondo calcolò velocemente distanza e traiettoria dell’enorme massa: la frana che avrebbe sicuramente seppellito il paese più in basso, non sarebbe riuscita a scalfire il mulino.
«Dammi la mano!» urlò allora a squarciagola per superare il rombo terrificante della frana.
Primo la allungò prontamente e andò a stringere forte quella del fratello. «Sono pronto!»
«Anch’io!» confermò secondo. «Andiamo?!»
«Sìììììììì!» proruppe Primo, correndo verso il torrente stringendo la mano di Secondo: in quel frangente esprimevano entrambi nello sguardo follemente luminoso la determinazione, la consapevolezza di compiere un gesto liberatorio.
Correvano mano nella mano, felici come lo erano stati in quei frangenti da bambini, quando urlando si precipitavano verso l’argine fermandosi a un passo dal baratro ridendo a crepapelle.
Ed ora eccoli lì, a un passo dal baratro, davanti a loro le cateratte dell’inferno liquido. No, stavolta non ci si ferma a ridere, non è più il tempo dei giochi, ora è il momento delle decisioni irrevocabili, definitive!
Un attimo dopo erano scomparsi nelle ribollenti rapide nere del torrente.
Secondo aveva calcolato bene: la frana passò sopra alle rovine della parte bassa del borgo senza rallentare la sua corsa e attraversò il torrente conservando l’energia cinetica bastante per risalire il declivio e radere al suolo le case della parte alta, lasciando il mulino intonso.
Della stirpe dannata, così come l’aveva apostrofata don Fernando profetizzando la fine del borgo, non si salvò nessuno, né i residenti né i pastori e le loro bestie al pascolo, l’intero fianco della montagna era venuto giù, seppellendo per sempre le case e lasciando intatto il mulino, la cui ruota continuava a girare nel silenzio agghiacciante della morte, rotto solo dagli scrosci della pioggia che continuava a cadere e dal rombo cupo dell’acqua del torrente che ora terminava la sua corsa infrangendosi contro lo sbarramento prodotto dalla frana.
FINE
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L'AUTORE Vecchio Mara
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Giancarlo, te l'avrò già detto in altre occasioni, lo so, ma te lo ripeto - con rinnovato vigore - anche adesso: migliori costantemente!
Questo racconto è narrato veramente bene, benissimo, sia a livello di impianto delle vicende che come stile, registro linguistico e punteggiatura. La tua impronta c'è, è quella di sempre, quella riconoscibilissima... ma elevata all'ennesima potenza! E, ovviamente, soggetta a ulteriori miglioramenti, come il buon vino.
Le vicende dei vari personaggi si intrecciano benissimo, alla grande, e il ricamo della narrazione è sapientemente miscelato tra il racconto del narratore esterno e i discorsi diretti degli abitanti del posto (con una sola eccezione: secondo me, nel finale, ciò avviene in maniera poco "naturale"; cioè una parte della storia viene quasi interamente "spiegata" dal dialogo tra i due fratelli che mi è parso un tantino forzato; sempre a mio modesto parere, sarebbe venuto meglio se la storia fosse venuta fuori con la medesima miscela di cui prima: discorso diretto, pensieri dei protagonisti, narratore esterno)... un posto che sembra quasi di poter vedere, con la montagna e il mulino, i cieli grigi e i nuvoloni e la pioggia battente, aggressiva, finanche spietata.
Vicende, poi, che pur mantenendosi "terrene" hanno quella sfumatura, quella nota, di mistero-sovrannaturale che contribuisce a regala qualche brivido in più.
Mi permetto di segnalarti qualche svista di battitura:
- se non ho preso un granchio, nelle parole di Genoveffa, all'inizio, dovrebbe essere: "... come ha fatto sessantacinque anni fa...";
- mancano le virgolette di chiusura laddove il marito di Genoveffa dice: "... anche il pascolo che sta dietro.";
- "le" anziché "gli" in "gli aveva detto Ernestina";
- "la verità vera"... non saprei: si può dire? Più che altro mi pare suoni un po' male, forse sarebbe meglio dire "Ma la realtà dei fatti era...", però, come ho detto, non saprei, vedi tu.
Insomma, Giancarlo, è stato un piacere, leggere questo bel racconto... complimentissimi!
Un salutone.