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"PUNTO E A CAPO" Racconto Narrativa non di genere
di Roberta
pubblicato il 2018-06-11 15:57:43
Piazza bella piazza
ci passò una lepre pazza.
(Claudio Lolli)
«Oh! Proprio ieri lungo questa stradina abbiamo visto un leprotto che correva, correva, ma piiiccolo!» dice mia madre, «dovevate vedere che bello. Una meraviglia.» Più tardi scendiamo a piedi lungo il prato in cerca di funghi; camminiamo pian piano, curvi, a testa bassa, spostando con la punta del piede l’erba al bordo del boschetto. Si sente solo il canto degli uccelli.
Ad un tratto mia madre sobbalza: «Oh nooo! Il leprotto!». Azzannato, troncato a metà, del leprotto restano le zampe e la parte inferiore. Una volpe, o forse un cinghialetto. Risaliamo mestamente il prato, senza aver trovato nemmeno un porcino.
Mezz'ora dopo, mi alzo dalla sdraio per vedere se mia madre ha bisogno d'aiuto; è in cucina che prepara il pranzo. «Che peccato per il leprotto», dice, seriamente addolorata. «La natura è crudele.». «È vero. Stavo pensando anch’io al male di vivere di Montale. I resti di un leprotto che l’altra sera correva veloce. Eccolo, il male di vivere.». Mia madre ha un breve lampo negli occhi; annuisce mestamente ("Voi, della razza di chi rimane a terra" è una delle sue citazioni montaliane preferite. Peccato che sia sbagliata: Montale dice "noi", ma mia madre la usa per prendere le distanze dal pragmatismo, che dsprezza profondamente.
«Che c’entra. Il leprotto se l’è mangiato un altro animale, è la selezione naturale», interviene Lorenzo (sedici anni).
«C’entra, c’entra. Spesso il male di vivere ho incontrato / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’accartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato. E così il leprotto tranciato a metà: è la vita soffocata, impedita, strozzata. Non lo senti dentro, il male di vivere, quando vedi queste cose? E’ talmente evidente! »
«Il male, esiste il male.», sentenzia sommessamente mia madre, con la sguardo assorto. Io penso a Pascoli e al X agosto: “Quest’atomo opaco del male.” Poi penso alla biscia d’acqua annodata che ha fotografato Rebecca, l'inglese trapiantata in Italia. Dice che era troppo agitata per “untide her”. Lorenzo scuote la testa e gli viene da ridere: agitata, addirittura. Per una biscia d’acqua. Ah, la Rebecca! Che commediante!
Eppure la biscia annodata è proprio come il rivo strozzato. Il correlativo oggettivo. Mi sento rimescolare dentro, solo a pensarci.
"Il male esiste." È un momento solenne, lì in mezzo alla cucina, mentre il pranzo cuoce in pentola. Mia madre medita – sicuramente fra poco declamerà “Oh, foss’io teco, e perderci nel verde […] ghiandaie [...] / gettarci l’urlo che lungi si perde / dentro il (non mi ricordo l’aggettivo)…. ozio dell’aie!”. È un classico, la declamazione di Romagna di Giovanni Pascoli: la sa tutta, dalle elementari.
Dopo pranzo siamo tutti seduti sulle sdraio, chi al sole chi sotto la fronda. Io vicino a Giorgio, mio nipote. La nonna racconta del leprotto.
Io e mio nipote ci guardiamo. Mi metto la mano accanto alla bocca, girando le spalle a mia madre. «Natura crudele. Povero leprotto. Peccato che abbia appena cucinato un coniglio.» Mio nipote fa per scattare in avanti verso la nonna. Lo fermo: «Sssht! Zitto, zitto, per carità! Non se n’è neanche accorta.»
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L'AUTORE Roberta
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Cari Massimo e Rubrus, grazie per il commento: avete colto almeno in parte lo spirito con cui questo pezzo è stato scritto. Non lo avrei pubblicato e nemmeno mi sarei messa a scriverlo se non si prestasse a interessanti meditazioni sulla storia della cultura del Novecento.
Nella parte iniziale abbiamo una visione sentimental - romantico - idilliaca della natura (interpretata dalla nonna), subito stroncata dal ritrovamento del leprotto ammazzato. La cosa apre un dibattito che riflette un po' le visioni tra positivismo, darwinismo e decadentismo. Da una parte la spiegazione razionale (i sedicenni, positivisti, sicuri delle proprie certezze appena acquisite e fiduciosi nelle risposte della scienza ai dubbi dell'uomo), dall’altra la visione “altra”, che vede il leprotto morto come correlativo oggettivo del "male di vivere" montaliano, che non è, si badi bene, un malessere individuale, ma qualcosa di ben più complesso e profondo che ritroviamo già nella letteratura decadente, nella figura dei vari inetti, cioè inadatti alla vita. Montale porta a compimento la figura dell’inetto, l’uomo cioè che non si accontenta delle risposte della scienza perché si sente estraneo alla realtà, non si riconosce in essa e cerca soluzioni (nell’indifferenza o nella ricerca di un varco). Non tutti gli uomini sono così: Montale nomina per esempio “l’uomo che se ne va sicuro”, oppure “gli uomini che non si voltano”. Nei romanzi di Svevo l’inetto è sempre affiancato da un antagonista sicuro di sé e vincente. I protagonisti delle opere di Pirandello sono sempre dei perdenti che cercano di liberarsi dalle maschere imposte da loro stessi o da altri, ma ci sono anche quelli che non si rendono conto (o non se ne preoccupano) di recitare dei ruoli o di indossare una maschera. Quelli non si fanno domande, vanno avanti per la loro strada.
Sulla montaliana poetica degli oggetti, portata avanti parallelamente da Thomas Eliot nella Terra desolata, vi trovo un po’ impreparati, ragazzi, ma non potevo certo fare lo spiegone all’interno del racconto!
Il finale chiude il cerchio: la visione irrazionale – romantico – sentimentale della nonna viene messa in ridicolo dal paradosso inconsapevole di aver versato lacrime sul leprotto mentre stava cucinando un coniglio fatto a pezzi e condito in salmì. In mezzo ci sta la questione del “male di vivere”, che è proprio l’espressione della consapevolezza che la natura si fa beffe delle sue creature: concezione che solo Montale, dopo Leopardi, ha saputo esprimere con tale rigore e sobrietà, senza sentimentalismi.
Certo, è tutto vero quello che dici. Molti comportamenti, razionalmente incoerenti, derivano da condizionamenti culturali (non mangeremmo mai un cane, o vermi o insetti, ma mangiamo molluschi e crostacei), o dalla nostra ingenuità e superficialità (ci commuoviamo per il leprotto, ma mangiamo tranquillamente il coniglio, il vitello ecc.). Anche la questione dell'assuefazione è purtroppo verissima. Probabilmente è proprio una difesa psicologica che ci impedisce di lasciarci coinvolgere con la stessa intensità da tutto ciò che ci viene messo davanti: una volta non eravamo a conoscenza di tutto quello che accadeva nel mondo, non arrivavano le notizie, non si vedevano le immagini di ciò che succedeva molto lontano. Sentire su di noi tutto il male del mondo con la stessa intesità con cui viviamo i fatti che ci riguardano più da vicino sarebbe insopportabile, insostenibile. E' necessario operare una selezione tra le cose da cui possiamo permetterci di farci coinvolgere, anche perché soffrire senza poter fare nulla sarebbe dannoso per noi senza essere utile a nessuno.
Tuttavia il discorso del male di vivere assomiglia un po' a questo: alcune persone hanno la capacità (il dono? la maledizione?) di sentire quasi concretamente la sensazione del "male". Montale dice di averlo "incontrato", come fosse una persona, o meglio una cosa concreta, proprio quel rivo strozzato, quella foglia accartocciata, quel cavallo stramazzato. Dice poi, nella seconda strofa della stessa poesia, che l'unico "bene" possibile è l'indifferenza, anch'essa incarnata da tre immagini: la statua immobile, la nuvola, il falco "alto levato". Naturalmente s'intende che quando si è del tutto impotenti davanti al male di vivere non si può fare altro che proteggersi, come dicevamo prima; se invece qualcosa si può fare, lo si deve fare. Montale, quando ha potuto opprsi all'ingiustizia, lo ha fatto: ha rifiutato di aderire al fascismo, a costo di perdere il lavoro; ha ospitato e aiutato amici e intellettuali ebrei e antifascisti; ha evitato di schierarsi da una parte o dall'altra nel secondo dopoguerra, dato che nessuno dei due schieramenti sembrava immune da ipocrisie, violenze, ingiustizie ecc.
Dimenticavo: rispetto al passato oggi abbiamo strumenti migliori, le neuroscienze aprono nuove prospettive. Non dobbiamo però dimenticare l’approccio filosofico: la domanda di senso, l’esigenza di spiritualità, l’apertura ad orizzonti che vanno oltre le risposte della scienza. Il grande tema dell’inettitudine, dell’incapacità di adattarsi dell’uomo moderno alla realtà, che percorre tutto il Novecento, va oltre la scienza e riguarda la metafisica. La crisi di identità e certezze non finisce nel Novecento, anzi è tipica della società postmoderna in cui ci muoviamo oggi.