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"PUNTO E A CAPO" Racconto Giallo / Noir / Thriller
di Vecchio Mara
pubblicato il 2018-06-03 13:12:23
L’ultima indagine (Le indagini del capitano Boschi)
«Altro che legittima difesa! Nemmeno eccesso di difesa, ci annuso in questo caso. Omicidio volontario, questo è! Le affido l’indagine, cerchi le prove per incriminare l’orefice e me le porti!» ringhiò il PM consegnandomi la documentazione.
«Cosa glielo fa credere?» gli chiesi, essendo al corrente che la vittima era entrata nell’oreficeria per rapinarla impugnando una pistola giocattolo; ma questo l’orefice non lo poteva certo sapere.
«Il mio fiuto!» esclamò pavoneggiandosi. Prima di aggiungere: «Ѐ l’esperienza accumulata in tanti anni, che mi permette di andare a colpo sicuro. Vada tranquillo, le poche volte che, leggendo le carte, ho azzardato movente e nome del colpevole, ho sempre fatto centro… E se non ricordo male, lei trasse giovamento da una di queste mie… chiamiamole “percezioni”».
In verità, in cinque anni di collaborazione, l’unica volta che lo udì azzardare, ciccò clamorosamente, sia il movente che il colpevole. Ma per non ferirlo nell’amor proprio, annuii e lasciai correre; anche perché, stavolta i suoi sospetti non erano del tutto campati in aria, visto che la ragazza moldava era stata la badante del suocero dell’orefice. «Mi metto subito al lavoro», mi limitai a dire, lasciando l’ufficio del PM.
Era da un paio d’ore che assieme all’appuntato Gargiulo, mio storico assistente, sfogliavamo la deposizione dell’orefice, guardando le fotografie della scena del crimine scattate dagli agenti della scientifica. Ma fu poco dopo, ripassando fino all’esasperazione il filmato della telecamera di sicurezza posta dietro al banco, che esclamai: «Mi sa che il vecchio, stavolta ha fatto centro!»
«Nooo… il PM? Non ci credo, sarebbe un evento straordinario!» commentò in tono ironico Gargiulo.
«Eppure… mi sa che stavolta dovremo complimentarci con lui», ribadii il concetto riavvolgendo il filmato. «Osserva bene, da qui… fino a quando l’orefice spara. Poi dimmi se noti niente di particolare», aggiunsi, mentre il filmato riprendeva la ragazza che, spingendo la porta, entrava nell’oreficeria.
In silenzio, con lo sguardo fisso sullo schermo, Gargiulo seguì l’intera scena. «No!» esclamò lapidario alla fine, rinforzando il concetto scrollando anche la testa.
«Prova ancora», insistetti, facendo ripartire la registrazione dall’inizio.
«No!» esclamò nuovamente l’abbacchiato Gargiulo
«Ok, non importa. Ora ti mostro», dissi sospirando, facendo ripartire la registrazione e arrestandola nei punti poco chiari, cercando di spiegare le probabili incongruenze al buon Gargiulo che pendeva dalle mie labbra.
«Ecco! Osserva la sua espressione!» esclamai, indicando il fermo immagine del volto della ragazza che aveva appena messo piede nell’oreficeria.
«Cosa dovrei vedere?» mi chiese Gargiulo, mentre ingrandivo il viso fino al limite dello sgranamento.
«Ѐ tranquilla… distesa… sembra quasi sorridere… Ѐ come se, invece che una rapina a mano armata, stesse facendo la cosa più normale di questo mondo», risposi indicando le labbra socchiuse.
«Beh, questo potrebbe significare che la ragazza è dotata di una buona dose di sangue freddo… o no?» replicò Gargiulo, in verità poco convinto della sua analisi.
«Potrebbe…» mi limitai a ribattere senza chiudere la riflessione, in modo da lasciar aleggiare il dubbio nella mente del buon Gargiulo. «Proseguiamo!» esclamai poco dopo, facendo avanzare la registrazione fotogramma per fotogramma.
«Ѐ appena entrata… ora mette la mano nella borsa… prende la pistola… la punta contro l’orefice, e subito dopo l’abbassa tenendo l’avambraccio disteso lungo il corpo… Poi, con un riflesso repentino, torna a puntarla contro l’orefice… Non noti niente di strano nel suo comportamento?» chiesi di nuovo a Gargiulo.
«Veramente… no!» rispose Gargiulo, tentennando un attimo.
«Puntando la pistola addosso all’orefice, non ha detto una parola… Solo dopo averla abbassata, quando torna repentinamente a puntarla sull’orefice si evince, dal labiale, che inizi a parlare… Un comportamento strano, molto strano…»
«Beh… a dire il vero io non ci vedo nulla di strano, starà sciorinando la solita frase adatta alla bisogna, tipo: “Questa è una rapina!” o qualcosa di simile», interloquì Gargiulo, interrompendo la mia riflessione.
«Gargiulo, non soffermarti su di lei, sull’attimo… sul particolare!» sbuffai infastidito dalla sua distorta visione dei fatti. «Devi osservare per intero l’azione ripresa dalla telecamera.»
Feci scorrere nuovamente il filmato. Osservando lo sguardo teso e pensieroso di Gargiulo, intensamente concentrato a seguire le varie fasi della rapina, compresi che nonostante l’impegno profuso continuava a non capire. Allora arrestai il filmato e, indicando i punti topici, spiegai con dovizia di particolari le incongruità al buon Gargiulo.
«La telecamera deve trovarsi in alto, alla spalle dell’orefice, spostata alla sua destra. Solo così può riprendere l’ingresso, la ragazza e, quello che più ci interessa, l’orefice di tre quarti; permettendoci di vedere la parte destra della nuca e del volto…» guardai Gargiulo per capire se stesse seguendo con attenzione la mia disamina, ottenendo in cambio un cenno d’assenso. Allora, sodisfatto del risultato, continuai: «Quando la ragazza punta la pistola, lui alza immediatamente le mani… ma non sembra impaurito… Ora, concentrati sul lato visibile del volto dell’orefice… Vedi, ha alzato le mani senza dire nulla; lo si evince dalla mascella immobile…»
«Sarà rimasto ammutolito dallo spavento… può accadere durante una rapina!» lo giustificò Gargiulo, interrompendomi.
«Può accadere», gli concessi. Prima di aggiungere: «Ma non mi sembra questo il caso».
«Su cosa basa questo convincimento, capitano?» domandò un perplesso Gargiulo.
«Su quello che succede poco dopo», risposi facendo avanzare il filmato. «Ecco, la ragazza abbassa la pistola… Vedi? Ora la mascella dell’orefice, che tiene sempre le mani in alto, si sta muovendo… sta dicendo qualcosa alla ragazza.»
«Vedendola abbassare l’arma, avrà preso coraggio e gli starà dicendo di stare calma, di prendere pure i preziosi ma di non fargli del male», ipotizzò Gargiulo, tirando affrettatamente le conclusioni.
«Sarebbe una giusta osservazione, se non fosse per quel che accade poco dopo», continuai riavviando il filmato. «Ti ricordo che l’orefice non sa che la ragazza gli sta puntando contro un’arma giocattolo, priva del bollino rosso di sicurezza», gli rammentai mentre seguiva con attenzione la scena sullo schermo del PC.
«Incredibile! Come può un uomo impaurito da una rapinatrice che tiene una pistola costantemente puntata contro di lui, prendere l’arma da sotto il banco, rivolgerla contro la ragazza e prima di sparare prendersi il tempo necessario per mirare e colpirla in mezzo agli occhi?» si domandò alla fine l’allibito Gargiulo.
«Non può!» esclamai soddisfatto. «Ovvero, potrebbe se fosse a conoscenza del fatto che quella impugnata dalla rapinatrice, è un’arma giocattolo.» Portai a schermo intero il particolare che intendevo far notare a Gargiulo. «E poi, come se non bastasse, c’è lo sguardo sorpreso della ragazza, che sembra non comprendere la reazione dell’orefice», aggiunsi, indicando il volto della ragazza pochi istanti prima di essere colpita. «Possibile che in quel paio di secondi, mentre lui prendeva la mira prima di sparare, sia rimasta immobile senza tentare di ripararsi e proferire verbo?»
«Forse era paralizzata dalla paura», provò a spiegare Gargiulo.
«O forse non aveva ancora ben realizzato che l’orefice, con il quale si era accordata per inscenare la finta rapina, stava prendendo la mira per andare a colpo sicuro», ipotizzai a mia volta.
Fu quando passai a visionare le immagini della telecamera esterna che l’ipotesi si fece certezza. «Guarda con che calma si avvicina alla vetrina… E poi, senza esitare, suona il campanello e si fa aprire… No, non è un comportamento normale per una ragazza inesperta e incensurata che tenta una rapina, consapevole di disporre soltanto di una pistola giocattolo», sentenziai. E dopo aver spento il PC, spiegai a Gargiulo le prossime mosse: «Domani mattina faremo un sopraluogo all’oreficeria. Intanto tu contatta l’orefice e fissa un appuntamento per il pomeriggio».
«Lo devo convocare in caserma?» mi chiese Gargiulo.
«Non è necessario… Meglio non allarmarlo. Spiegagli che in questi casi si tratta della normale procedura per chiarire dei particolari rimasti in sospeso. Rassicuralo dicendogli che non è indagato per nessun reato e che possiamo incontrarlo anche a casa sua.»
Gargiulo annuì e si attivo immediatamente.
«Oreficeria, Arnaldo Spadoni e figlia!» dissi leggendo la targa in ottone accanto alla porta. «Il sospettato, Riccardo Leone, non è lui il titolare?» domandai a Gargiulo. Il quale trasse il rapporto dalla borsa e, dopo averlo sfogliato, rispose: «Il rapporto non lo chiarisce».
«Ma chi l’ha redatto ‘sto rapporto? Un agente alla prima esperienza?» sbottai innervosendomi. «Va beh, lasciamo stare… Entriamo a dare un’occhiata, togli i sigilli», ordinai, ripromettendomi di chiarire il punto più tardi con l’orefice.
L’ispezione durò una decina di minuti, non di più; il tempo di controllare la posizione della telecamera e qualche altro particolare prima di uscire.
Mentre attendevo che Gargiulo finisse di sistemare i sigilli della procura, notai appoggiato all’esterno del bar sull’altro lato della strada il gestore che, probabilmente attirato dalle nostre divise, osservava interessato la scena. “Solitamente ai baristi non sfugge niente di quel che accade nel circondario. Molte volte conversando con i clienti abituali raccolgono le loro confidenze; chissà se l’orefice era un assiduo frequentatore del suo bar?” mentre riflettevo, un avventore lo salutò entrando nel bar, il barista rispose al saluto e lo seguì all’interno del locale.
«Capitano, io avrei finito. Possiamo andare», la voce di Gargiulo pose fine alla riflessione.
«Che ne dici di farci un caffè, Gargiulo?» domandai indicando il bar di fronte.
«Veramente, l’avrei già preso prima di uscire di casa», rispose lui.
«Eeee… te ne prenderai un altro… male non fa! Andiamo, offro io, approfittane!» insistetti sorridendo, dando una pacca sulla spalla a Gargiulo.
«Il suo locale è proprio di fronte all’oreficeria…» esordii, mentre sorseggiavo il caffè.
«Mi spiace non poter esservi d’aiuto, ma purtroppo il giorno della rapina è caduto durante il riposo settimanale», m’informò il barista, intuendo dove volessi arrivare prima che terminassi la frase.
«Ho capito», ribattei deluso. E posando la tazzina sul banco, aggiunsi una domanda: «Riccardo Leone, l’orefice, è solo un dipendente?»
Un sorriso amaro attraversò lo sguardo del barista. «Uno schiavo è il povero Riccardo! Altro che, solo un dipendente!» rispose stizzito.
Sorpreso dalla reazione del barista, mi venne spontaneo chiedergli se lo conoscesse bene.
«Benissimo! Sia lui che quella mezza nazista della moglie!» rispose lui rincarando la dose, aggiungendovi dell’astio nei confronti della consorte dell’orefice.
«Mi par di capire, che non scorra buon sangue fra lei e l’orefice», mi venne logico commentare.
«Si sbaglia!» sbottò il barista irrigidendosi. «Conosco Riccardo… si può dire da sempre. E. a differenza di Cristina, la nazista, lo considero un buon amico.»
Si capiva che cercava solo un appiglio per sfogarsi, riversandomi addosso tutta la rabbia accumulata nel tempo. «Però con la moglie non si è mai annusato!» buttai lì, fornendogli l’appiglio su cui appendere il suo sfogo.
«Non è sempre stato così… Ѐ una storia lunga, ma non voglio farle perdere tempo», disse immalinconendosi.
«Non sarà una perdita di tempo», dissi soltanto, e tanto bastò a far felice il barista.
«Sediamoci là!» esclamò uscendo dal banco, indicando un tavolino nell’angolo lontano.
«Accomodatevi!» aggiunse indicando le sedie, E quando io e Gargiulo ci fummo accomodati, si sedette alla mia destra, trasse un lungo respiro ed esalandolo iniziò a raccontare di sé, di Riccardo e dell’odiata Cristina.
«Frequentavamo lo stesso liceo, io Riccardo e Cristina. Riccardo era un tipo timido e mingherlino; tutto l’opposto di Cristina, bella e arrogante. Un carattere forte, per certi versi simile al mio… fu per questo che il nostro tempestoso rapporto era durato, il tempo di un’estate. All’apertura del nuovo anno scolastico avevo tentato un riavvicinamento, l’amavo ancora alla follia. Ma lei mi aveva riso in faccia dicendomi che non mi aveva mai amato; aggiungendo che l’uomo dei suoi sogni doveva essere dolce e remissivo… Desiderava quello che in me non avrebbe mai potuto trovare; una mente debole da plagiare, uno schiavo d’amore! Così, aveva iniziato a frequentare il timido Riccardo. Aveva avuto gioco facile con lui; nonostante io lo mettessi costantemente in guardia, Riccardo si era lasciato plasmare diventando il suo schiavo ancor prima di sposarla», sospirò, scosse il capo e poi riprese con più foga: «Ma lo sa che il povero Riccardo non può spendere un euro senza che lei lo venga a sapere? Lo sa che i conti sono intestati a lei? Che per gli acquisti dei preziosi, i rappresentanti non passano in oreficeria ma nello studio legale di Cristina?»
«Cristina è un avvocato?» gli chiesi interrompendolo.
«Già, un avvocato di fama!» rispose.
«Hanno dei figli?» domandai ancora.
Il barista scosse il capo. «No! E anche di questo dramma, devastante per una coppia, aveva trovato il modo di servirsene per riversare tutte le colpe sul povero Riccardo, rendendolo sempre più succube delle sue paturnie.»
«E in che modo?» chiesi sempre più preso da un racconto che disegnava un rapporto dai risvolti umani inesistenti.
«Dopo cinque anni di matrimonio, Riccardo era venuto da me a sfogarsi. Piangendo mi aveva detto che stava rovinando la vita a Cristina… che lei non meritava tutto questo. Era successo quando, stressata dopo numerosi tentativi andati a vuoto, in un impeto d’ira lo aveva accusato di essere solo un mezzo uomo, incapace d’inseminarla. Poi, dopo avergli riversato addosso epiteti irripetibili, piangendo gli aveva promesso che comunque non lo avrebbe mai lasciato, e che lui avrebbe dovuto regalarle quella felicità che le facesse dimenticare il dolore di non poter essere madre per colpa sua. Quello che intendeva dire tra le righe, era che da lì in avanti le avrebbe dovuto cieca obbedienza. Capito che razza di donna s’è sposato il timido Riccardo?» concluse battendo un pugno sul tavolo.
«E della ragazza, la badante del suocero, cosa mi può dire?» gli chiesi, sperando che il suo amico si fosse confidato con lui.
Il barista appoggiò la schiena alla sedia. «Irina, la moldava. Che tragedia… povero Riccardo, pure questa gli doveva capitare», iniziò a rispondere in tono sconfortato. «Quando suo padre, per colpa di un ictus, era rimasto paralizzato, Cristina si era premurata di trovare una badante che si prendesse cura di lui ventiquattro ore su ventiquattro. Dopo aver contattato varie agenzie, alla fine aveva scelto Irina. Da quello che mi diceva Riccardo, la trattavano quasi come una figlia. Poi, due mesi fa, quando il vecchio aveva tirato le cuoia, Riccardo aveva proposto a Cristina di tenerla con loro come domestica. E tanto era bastato a far emergere la sua vera natura: rosa dalla gelosia l’aveva licenziata in tronco!»
A quel punto, mi venne spontaneo chiedergli: «Che tipo di rapporto c’era fra Irina e Riccardo?», cercando in tal modo di comprendere il perché della reazione, a dir poco stizzita, di Cristina.
«Che io sappia, sia lui che la moglie coltivavano un normale rapporto amichevole con la badante di suo suocero», rispose tranquillamente. «Tutto qui! Ora scusate, ma il lavoro mi chiama», concluse indicando tre avventori che stavano entrando nel bar.
Forse non volle sbilanciarsi per non creare ulteriori problematiche a un amico in palese difficoltà. Quel che mi sento di affermare, è che a me parve sincero. Così mi alzai, pagai i caffè, lo salutai ringraziandolo e, seguito da Gargiulo, me ne andai.
«A che ora dobbiamo incontrare l’orefice?» chiesi a Gargiulo mentre tornavamo in procura.
«Oggi pomeriggio, alle tre, a casa sua… Ma forse, visti gli ultimi sviluppi; è più giusto dire a casa della moglie del povero orefice» chiosò con una battuta sarcastica Gargiulo.
«Madonna mia! Ma che è, la casa di Dracula!» proruppe Gargiulo, osservando dall’esterno la villa in stile gotico ergersi in mezzo a un giardino allo stato brado.
Sorrisi, suonai il campanello e, visto che non c’era citofono, attesi che un vecchio maggiordomo ricurvo sotto il peso degli anni e del mistero, venisse ad aprire il cigolante cancello arrugginito.
Grande fu la sorpresa, quando una donna alta e sinuosa dai lunghi capelli castani portati sciolti sulle spalle, con indosso un tubino nero lungo fino ai polpacci che copiava le forme del corpo, uscì dall’ingresso principale e venne verso di noi.
«Capitano Boschi!» esclamai irrigidendomi nel saluto militare, e subito dopo, indicandolo, aggiunsi: «Lui è l’appuntato Gargiulo. Siamo attesi dal signor Riccardo Leone».
«Mio marito vi sta aspettando, entrate», disse con voce gentile, aprendo il cancello.
«Lei è la moglie… Mi scusi», balbettai imbarazzato.
Lei s’irrigidì un attimo, subito dopo sorrise. «Ora ho capito, mi ha scambiato per la domestica.»
«Già, un clamoroso abbaglio!» feci stringendomi la fronte.
«Non si preoccupi, non è il primo che mi scambia per la donna di servizio. Il fatto è che, vedendo la villa, nessuno vuol credere che io e mio marito la gestiamo da soli», mi spiegò mentre ci incamminavamo verso l’ingresso.
«Non avete personale di servizio?» chiesi stupito, osservando l’imponente manufatto.
«No, nessuno. Un paio di volte all’anno contattiamo un’impresa per le pulizie di stagione, per il resto, ci arrangiamo da soli», rispose. Poi afferrò la maniglia della porta e prima di aprirla aggiunse: «A parte la povera Irina, che avevamo dovuto assumere per badare a mio padre, nessun altro estraneo frequenta assiduamente la nostra casa».
Quello che mi colpì di primo acchito, oltre alla bellezza decadente della villa, e di riflesso il fascino demodé della signora, era la naturalezza con la quale si esprimeva esternando uno stile di vita, che paragonato alle professioni dei due coniugi, appariva a dir poco originale.
«Mio marito vi attende nello studio», disse aprendo una porta alla sinistra del sontuoso scalone centrale.
Scostandosi di lato ci fece entrare.
«Buona giornata», quasi sussurrò un uomo calvo, età presunta intorno alla sessantina, dalla corporatura così minuta da sembrare incastrato nella poltrona in cui era adagiato.
«Scusate se non mi alzo. Ma dal giorno della rapina, ho continui sbalzi di pressione», aggiunse subito dopo, iniziando a sudare.
«Non ti preoccupare, caro. Cerca di stare calmo, io sono con te… E il capitano cercherà di non stressarti», lo rassicurò la moglie, avvicinandosi alla poltrona per stringergli la mano. «Accomodatevi sul divano», disse poi, indicandolo.
«Posso iniziare?» chiesi usando un tono contenuto, dopo essermi accomodato.
L’orefice annuì stringendo forte la mano della moglie.
«Prima di passare in oreficeria, Irina la chiamò?» fu la mia prima domanda.
«No… no… chiamò Cristina», balbettò l’orefice, cercando lo sguardo rassicurante della moglie.
«Ѐ vero, mi aveva chiamato due giorni prima per fissare un appuntamento. A quanto pare aveva deciso di tornare al suo paese e voleva acquistare un paio di orecchini da regalare alla madre, questo mi aveva detto», confermò prontamente lei.
«Irina, non l’ha mai contattato direttamente?» chiesi all’orefice, incuriosito dal fatto che dai tabulati non risultava nessuna chiamata al suo cellulare, escludendo dal computo quelle fatte dalla moglie.
«Andiamo, capitano! Finiamola con questi giochetti e veniamo alle domande serie, se ne ha… Altrimenti lasciamo perdere!» saltò su la moglie, mostrando l’arroganza dei forti.
«Non capisco cosa intende…» ebbi appena il tempo di dire, prima di essere investito da un fiume di parole degno di un'arringa.
«Lei ha controllato i tabulati del cellulare di mio marito, e trovando solo chiamate dal mio si sta chiedendo il perché di questa anomalia. Allora! Senza tirarla troppo per le lunghe, se permette glielo spiego io! Tre anni fa mio marito aveva preso in pegno dell’oro da un imprenditore che necessitava di contante. Il contratto prevedeva che dopo sei mesi, pagando un interesse del dieci per cento, l’imprenditore avrebbe potuto riscattare i gioielli di famiglia. Oltre quel termine, mio marito si sarebbe considerato sciolto dal patto e avrebbe tenuto per sé l’oro. L’imprenditore aveva richiamato mio marito dieci mesi dopo, dicendogli che era pronto a riscattare il pegno. Naturalmente mio marito, dietro mio consiglio, aveva rifiutato lo scambio; e da quel giorno erano iniziate le telefonate minatorie. Era sicuramente lui il bastardo che conoscendo l’emotività di mio marito lo bombardava di messaggi per portarlo al punto di rottura. Allora avevo provato a rivolgermi alla polizia per rintracciare il numero dal quale provenivano le chiamate; ma dopo una lunga e infruttuosa ricerca, conclusero che chi inviava i messaggi sicuramente stava usando schede clonate, e che senza prove loro non sarebbero potuti intervenire. Così, per tagliare la testa al toro, avevo chiesto al gestore un numero schermato, noto solo a me. Da allora, sono l’unica che lo conosce e può digitare il numero del cellulare di mio marito. Credo che questo possa bastare a soddisfare la sua legittima curiosità!»
Annuii, poi guardai l’orefice; e quell’uomo minuto prigioniero della prorompente personalità della moglie, m’ispirò un senso di pietà. “Però rimane sempre il telefono dell’oreficeria”, pensai, prima di chiederlo alla signora: «Potrebbe sempre chiamare l’utenza fissa dell’oreficeria, o no?»
Cristina scosse la testa. «Potrebbe… e magari l’avrà pure fatto; ma noi non lo sapremo mai.»
«Basterebbe controllare i tabulati per scoprirlo» insistetti.
«E a quale scopo? Per far passare altre notti insonni a mio marito? No, grazie. La soluzione più semplice è stata quella di non rispondere più al telefono e usare la linea solo per le transazioni dei clienti in possesso della carta di credito!» tagliò corto
«Semplice ed efficace!» esclamai stupefatto, strappando un sorriso compiaciuto alla signora.
Provai a fare altre due o tre domande, prontamente rintuzzate dalla signora, dopodiché salutammo la strana coppia e ce ne andammo.
Nei giorni seguenti mi diedi da fare per cercare prove o indizi che avvalorassero la tesi dell’omicidio volontario. Dovevo capire cosa ne era stato della vita di Irina dal giorno in cui aveva lasciato il lavoro di badante fino al tragico evento.
Per questo mi recai all’agenzia che le aveva trovato il lavoro, ma la titolare mi disse di non averla più né vista né sentita. Allora le chiesi se fra le extracomunitarie che frequentavano l’agenzia in cerca di lavoro ci fosse qualcuna che l’avesse conosciuta, e se sapesse indicarmi dove o come rintracciarle; ma anche in questo caso i ricordi della titolare non mi furono di grande aiuto.
Niente! Irina era come sparita, scomparsa nel nulla, fagocitata dalla rumorosa solitudine della metropoli; chissà dove e come avrà vissuto il breve tempo che la separava dall’attimo fatale.
«Nemmeno uno straccio di prova, siamo riusciti a trovare in due mesi… Pur convinto della sua colpevolezza, mi vedo costretto a chiudere le indagini sull’orefice con un nulla di fatto», fu l’amaro commento del PM quando gli consegnai la relazione sulle indagini svolte.
«Eppure ci dev’essere un modo per incastrarlo!» proruppe, sbattendo con rabbia il fascicolo sulla scrivania. E dopo una breve riflessione sbottò: «Capitano Boschi! S’ingegni e trovi un movente, uno qualsiasi!»
«Un movente dice? Mi spiace, ma non saprei proprio dove andare a pescarlo…» risposi deluso. Aggiungendo, dopo averci ragionato sopra: «Ma un modo per fregarlo… forse lo potrei trovare!»
«Vada avanti!» mi esortò il PM, assumendo un’espressione interessata.
«Ha mai giocato a poker?»
«No, solamente qualche briscola con gli amici, durante le ferie… Ma che cavolo mi fa dire! Cosa c’entrano le carte con l’indagine?» sbottò, sconcertato, il PM.
«Il poker, è un ottimo allenamento per imparare a bleffare», risposi.
«Pur non avendo mai giocato a poker, sono abbastanza scafato in materia… prosegua pure», rilanciò il PM.
«Gli faccia avere un avviso di garanzia, come indagato… Ipotesi di reato: omicidio volontario! Poi fissi la data per l’interrogatorio… Diciamo, una settimana da ora, in modo da far lievitare l’ansia, e convochi lui e il suo legale», gli spiegai.
«Ok, e quando li avremo davanti?» fece lui.
«Quando li avremo davanti, giocheremo la nostra partita ad armi pari… E alla fine non vincerà chi avrà le carte migliori, ma chi saprà bleffare meglio», conclusi appoggiando la mano sulla scrivania, mimando il gesto di mostrare le carte all’avversario.
IL PM annuì convinto. «Può funzionare! Ora mi spieghi il piano nei minimi dettagli.»
Seduto davanti alla scrivania con lo sguardo basso, l’orefice scrutava di sottecchi il lato opposto, quello dove c’eravamo accomodati io e il PM. La moglie, in piedi dietro di lui, teneva le mani sopra le sue spalle per fargli sentire anche fisicamente la propria vicinanza, mentre, nelle vesti di legale, ne difendeva la statura morale. «Questa storia è assurda, mio marito ha agito per legittima difesa. Da quando è accaduto l’increscioso fatto, non dorme più di due ore per notte, si sta consumando come una candela per aver difeso la sua vita. A volte capita che si svegli di soprassalto imprecando per aver avuto il coraggio di sparare a Irina. Mi si spezza il cuore, quando mi avvicino per tentare di calmarlo, sentirlo dire che avrebbe dovuto essere lui al posto di Irina. E come se non bastasse tutto questo, voi… voi continuate a tormentarlo!» diceva la moglie, assurta al ruolo di avvocato difensore del marito, lanciando occhiate fiammeggianti al nostro indirizzo.
Dopo la dura reprimenda si sedette accanto al marito, pronta a contestare ogni nostro tentativo di far cadere in contraddizione il suo assistito.
Dopo una ventina di minuti di domande e risposte che non avevano scalfito la tesi difensiva dell’orefice, il Pm decise che era venuto il momento di giocarsi l’intera posta. «Sarebbe disposto a sottoporsi all’analisi del DNA?» chiese a bruciapelo all’orefice.
«Alt!» esclamò la moglie avvocato. «Cosa sarebbe questa novità?» chiese insospettita.
«L’autopsia ha rivelato che Irina era incinta», buttò lì il PM.
L’orefice sobbalzò sulla sedia.
Avevamo puntato forte sulla reazione emotiva che una simile notizia avrebbe innescato, e di primo acchito l’azzardo fu sul punto di far saltare il banco. Ma non avevamo fatto i conti con l’imponderabile: l’ingombrante presenza di quel demonio vestito da donna che incombeva al suo fianco.
«Stai calmo, è solo un trucco!» lo avverti lei usando un tono convincente, affondando le unghie nell’avambraccio del marito.
L’orefice si ammutolì all’istante ricadendo pesantemente sulla sedia.
«Il mio assistito si avvale della facoltà di non rispondere a questa ed altre domande. Almeno fino a quando non ci verrà fornita copia della relazione autoptica. Solo dopo averla fatta leggere a un esperto di nostra fiducia, decideremo come e quando rispondere alle vostre domande… Ciò detto; propongo di aggiornarci a dopo che ci sarà stata fornita la documentazione del caso non ancora in nostro possesso», sciorinò con grazia forense, rimanendo in attesa della nostra reazione.
Ora il PM si trovava davanti a un bivio: richiedere al giudice un mandato d’arresto per il sospettato pur in assenza di prove, evocando un ipotetico pericolo di fuga, oppure accogliere la richiesta del legale e fissare un nuovo interrogatorio dopo aver fornito la documentazione richiesta alla difesa.
La prima ipotesi era obiettivamente impercorribile. Così, il PM si vide costretto a piegarsi alle richieste della difesa.
«Alzati e andiamocene!» ordinò, strattonandolo, al marito inebetito con lo sguardo perso nel vuoto.
«Abbiamo giocato… e perso», dovette ammettere in tono deluso il PM, quando i due lasciarono l’ufficio. «Quando quella donna, leggendo il referto dell’autopsia capirà che la vittima non era incinta, scoprirà il bluff.»
«In ogni caso, è stato giusto provarci», chiosai ancor più deluso del PM.
Seduto davanti alla scrivania ascoltavo, senza entusiasmo, il PM leggere la confessione dell’orefice: “Durante la pausa, quando mia moglie era impegnata in tribunale e mio suocero non aveva bisogno di assistenza, io e Irina ci appartavamo nella sua camera. Andammo avanti così per tre, quattro mesi, fino a quando mio suocero morì. Avevo promesso a Irina che quando lui sarebbe venuto a mancare, avrei convinto mia moglie ad assumerla come domestica; ci avevo provato, ma lei non aveva voluto sentire ragione, e Irina se n’era andata giurando che l’avrei pagata cara! Un mese dopo, mentre m’incamminavo per raggiungere l’oreficeria, l’avevo incontrata, non certo per caso visto che senza troppi preamboli era giunta subito al ricatto. Voleva trentamila euro per non rivelare tutto a mia moglie. Non essendo tale somma nelle mie disponibilità, avevo deciso di confessare tutto a Cristina, convinto in tal modo di mettere fine al ricatto. Ma mia moglie, ferita dal comportamento subdolo di Irina, e temendo che potesse rivelare ad altri quel che c’era stato tra di noi, aveva deciso di vendicarsi escogitando un piano perfetto. Due giorni prima del delitto ero andato all’appuntamento con Irina. Spiegandole che una tale somma non era e non sarebbe mai stata nelle mie disponibilità, e che nemmeno potevo prendere preziosi per un valore equivalente dall’oreficeria, perché mia moglie, amministratrice unica dopo la morte del padre e responsabile per gli acquisti dell’azienda, accorgendosi dell’ammanco avrebbe capito, le avevo prospettato come aggirare l’ostacolo. Non era stato difficile convincerla ad inscenare la finta rapina; e, rassicurandola sul fatto che le telecamere all’interno e all’esterno dell’oreficeria sarebbero risultate guaste, ad agire a volto scoperto».
Il PM mi fissò nello sguardo e mi passò copia della confessione, dicendo: «Ѐ tutto scritto qui! Quel che accadde in seguito è stata la logica conseguenza di un rapporto sbagliato, fra un uomo dalla personalità troppo fragile, e una donna diabolicamente forte e determinata. Se ne faccia una ragione».
«Si è dimenticato di citare la parte più interessante», gli rammentai prendendo la copia della confessione.
Diedi una rapida scorsa allo scritto e, soffermandomi sulla parte finale, lessi a voce alta: «L’ultimo interrogatorio mi aveva sconvolto nel profondo dell’anima. Una volta rientrato a casa ero caduto in una profonda apatia. Mia moglie aveva provato a scuotermi dicendo che più di quarant’anni di vita insieme contavano infinitamente di più della vita di una troia moldava e del bastardo che portava in grembo. Al che, avevo reagito alzando per la prima volta la voce contro di lei. Riversandole addosso tutta la rabbia che avevo in corpo, le urlavo che quel bastardo era il figlio che avevamo sempre desiderato avere, che se fosse nato l’avremmo cresciuto e accudito insieme come se fosse stato nostro. “In questa casa non sono ben accetti i bastardi!” aveva replicato lei con livore. Ѐ stato in quel momento che, accecato dall’odio nei confronti della donna amata da sempre, afferrando il coltello appoggiato sul tavolo mentre le urlavo di rispettare la memoria di mio figlio, glielo conficcavo nel petto».
Posai i fogli sulla scrivania, e con calma, così conclusi: «Il punto è che la morte di quella donna, dura e cattiva quanto si vuole, meritevole di finire a processo e di prendersi l’ergastolo, pesa sulla mia coscienza come un macigno. Fui io a elaborare il piano per incastrare l’orefice, inventandomi la finta gravidanza. Dunque, la colpa di ciò che accadde in seguito, è solamente mia».
«Accetti un consiglio disinteressato: le crisi di coscienza, le riservi per il suo padre spirituale…» iniziò a dire in tono pacato il PM.
«Non ho nessun padre spirituale!» ribattei prontamente, interrompendolo.
«Allora se le tenga per lei!» sbottò il PM, mutando repentinamente atteggiamento. Proseguendo poi in tono alterato: «Se vuol prendersi la colpa, deve prendersi anche il merito d’aver assicurato un assassino alla giustizia! Rifletta bene prima di prendere decisione affrettate. Ora se ne vada! Non ho tempo da perdere, io. Buona giornata, capitano Boschi!»
«Lo farò, buona giornata», chiosai laconico, salutandolo militarmente.
Ed ora eccomi qua, indeciso come mai lo sono stato, a riflettere se continuare a fare ciò che ho sempre fatto… oppure chiudere definitivamente col passato e andare verso nuove e più tranquille prospettive di vita.
FINE
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L'AUTORE Vecchio Mara
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Beh, non c'è male, direi, una buona conclusione della saga, che volendo può sempre ripartire con nuove avventure, nel caso il pubblico le richiedesse a gran voce (vabbeh, improbabile), senza bisogno di far resuscitare Sherlok Holmes come dovette fare Artur Conan Doyle. E anche la saga complessiva mi è piaciuta, con qualche distinguo tra un episodio e l'altro, ovviamente, però oltre a quanto ho già commentato in precedenza posso aggiungere che stasera ho appena finito di leggere anche "la spada del samurai" e mi ha convinto pure quello. Bravo.
Mm... Qualche settimana fa ho letto un giallo Mondadori italiano penoso. E un amico mi ha detto che anche il precedente e primo romanzo dell'autore era penoso. Malgrado ciò li pubblicano Mah! Le storie di Boschi sono decisamente meglio. Naturalmente però scriverci sopra un romanzo sarebbe assai più complesso.
N.B.: "un arringa": manca l'accento (ogni tanto capita pure a me). Dopo "rimasto paralizzato" ci va la virgola e non il punto. Ciao.