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"PUNTO E A CAPO" Racconto Horror / Mistery / Pulp
di Vecchio Mara
pubblicato il 2017-12-17 11:33:18
La casa degli specchi
«Dannazione! Non si vede a un metro!» sbottò Matteo, procedendo a passo d’uomo con gli occhi fissi sulla striscia bianca della mezzaria.
Non riusciva a spiegarsi lo strano fenomeno; alle undici di sera, quando era uscito da casa come una furia, sacramentando, il cielo era trapuntato di stelle, poi, all’improvviso, appena lasciato il centro abitato una nebbia spessa e compatta, arrivando dai campi come un’onda di piena aveva occultato ogni cosa.
«Cazzo! Ora è sparita pure la striscia bianca!» proruppe allungando il collo, arrivando con gli occhi rasente il parabrezza.
Cercava, disperatamente, seguendo il fascio luminoso dei fendinebbia, perlomeno d’intuire dove finisse il nastro d’asfalto sul lato destro, ma il grigio uniforme che tutto avvolgeva non gli consentiva di vedere il verde dell’erba della banchina laterale.
Una sbandata, dovuta allo scarrocciamento della ruota anteriore destra, lo allarmò: «Sono fuori!» esclamò girando repentinamente il volante a sinistra.
Aveva appena sospirato per lo scampato pericolo, quando uno scarrocciamento sul lato opposto lo convinse a fermarsi dov’era. «Ma quant’è larga ‘sta strada?» si chiese, rammentando che poc’anzi, prima di entrare nel banco di nebbia, si trovava su una provinciale larga almeno otto metri.
Scese con circospezione appoggiando i piedi sull’erba della banchina, girò attorno al veicolo passando davanti ai fari accesi. «Mah! Saranno due metri appena» costatò allibito, tastando con il piede l’erba della banchina del lato opposto. «E adesso? Dove la vado a girare la macchina?» si domandò preoccupato.
Salì in macchina. “Meglio attendere che si alzi almeno un po’ la nebbia, prima di muoversi… intanto avviso Giuditta che farò tardi. Già sarà preoccupata per come mi ha visto uscire, se poi dovessi rientrare all’alba, chi la tiene più” rifletté, cercando istintivamente il cellulare nella tasca della tuta.
«Maledizione!» sbottò battendo i pugni sulla corona del volante. «Ero così fuori di me, che mi sono scordato il cellulare sul comodino… e adesso?»
Ci pensò su, e alla fine convenne che: no, non poteva lasciare sua moglie, già angosciata quando lo aveva visto uscire sbraitando, in attesa fino all’alba. Allora decise di avanzare ancor più lentamente, fidando nella propria abilità nel tirar su la macchina al primo segno di scarrocciamento, a destra o sinistra. «Primo o poi, dovrà pur sbucare da qualche parte questa specie di sentiero» si disse per darsi coraggio.
Dopo un quarto d’ora di strada, percorsa avanzando e frenando, controllò la distanza sul contachilometri. «Tre chilometri appena» sospiro deluso, puntando gli occhi arrossati dalla tensione tra le razze del volante. «Ma come diavolo ho fatto ad infilarmi in questo budello?» si domandò scuotendo il capo.
In quel mentre la nebbia parve aprirsi. «Incredibile, mai visto niente di simile» disse stupefatto osservando la nebbia dividersi sino a formare una specie di tunnel grigio, sul fondo del quale correva la strada.
Gettando lo sguardo lungo il tratto illuminato dai fari, ora poteva costatare che la strada proseguiva, stretta e rettilinea, sino a quelle che s’intuivano essere costruzioni.
Senza indugiare oltre inserì la marcia e proseguì deciso.
«Ma che razza di posto è?» si domandò entrando in paese. «Sembrerebbero le facciate di un set cinematografico» si rispose arrestandosi nel mezzo di un villaggio dall’architettura stramba, illuminato da una strana luce intermittente, azzurrognola.
«Qui è tutto stretto e lungo, come la strada» commentò guardando le case che incombevano ai lati.
Le case, in stile gotico, sei sul lato destro e altrettante sul sinistro, erano tutte identiche; ma la particolarità più sorprendente, era la forma stretta ed allungata: come se fossero costruzioni di gomma che qualcuno, divertendosi a tirarle dall’alto, le avesse allungate all’inverosimile donando loro una siluette esile e rastremata verso l’alto.
Seguendo con lo sguardo la sciancratura di un’abitazione arrivò al colmo del tetto; solo allora si accorse che la nebbia era sparita del tutto e poteva osservare un cielo ancor più sbalorditivo delle case. «Fulmini tra le stelle?!» esclamò incredulo e anche un po’ spaventato. Poi, perdendosi dentro una spettacolare serie di scariche elettriche che andavano da un punto luminoso a un altro di un cielo notturno come mai gli era capitato di vedere, comprese che non era merito dei lampioni lungo la via, peraltro assenti, l’inquietante luce gravante sul villaggio che, assieme al disegno sfuggente verso l’alto delle case, donava al tutto un’atmosfera spettrale. «Da brividi!» sovvenne d’esclamare a Matteo.
Tornò a guardare le case, illuminate ad intermittenza dallo strano fenomeno elettrico, cercando d’intuire, scrutando attraverso le finestre, almeno un barlume che certificasse la presenza di vita al loro interno. “Eppure la forma di queste costruzioni mi rammenta qualcosa” pensò soffermandosi sulle facciate.
Guardò le porte d’ingresso, strette lunghe e sciancrate, così come le finestre, e si chiese: «Ma gli eventuali inquilini, che statura dovrebbero avere?»
Sorrise, ormai convinto di essere capitato, chissà come, sul Set cinematografico in fase d’allestimento di un film fantasy oppure horror, e si rispose ironicamente: «Se tanto mi dà tanto… direi: alti almeno due metri con una circonferenza toracica di trenta centimetri.»
Il cigolio di una porta che si apriva alle sue spalle, avrebbe ben presto soddisfatto la sua curiosità.
Volgendo lo sguardo all’indietro, notò una figura segaligna uscire e portarsi al centro della strada.
L’uomo, con indosso un lungo tabarro nero, avanzava con andatura dinoccolata, tenendo il capo, coperto da un cappellaccio a larghe tese, piegato fortemente all’ingiù: come se deambulasse senza preoccuparsi di guardare davanti a sé, ma solamente di osservare dove posava i passi.
Matteo, aguzzando la vista, provò ad intuirne il volto, ma la scarsa e intermittente illuminazione fornita soltanto dalle scariche elettriche che continuavano a scoccare tra i punti luminosi della volta celeste, oltre alle larghe falde del copricapo, ne occultavano lo sguardo.
Quando fu a un paio di metri da lui, l’uomo arrestò il passo e lo salutò: «Buonanotte!» disse con voce baritonale.
Matteo abbassò lo sguardo per osservare il volto occultato dietro le falde del cappello; allora questi, alzando l’avambraccio, si coprì la parte bassa del viso con un lembo del tabarro.
“Si vergogna di mostrarsi, o cosa?” si chiese Matteo, sconcertato dal comportamento dell’uomo. Prima di replicare al saluto con un timoroso: «Buona-notte.»
Poi si tacque e attese che l’altro iniziasse la conversazione: chiedendogli magari come mai aveva arrestato la macchina in mezzo alla strada e se gli servisse aiuto.
Poco dopo, non ottenendo soddisfazione, si decise a prendere l’iniziativa, domandargli in tono preoccupato: «Saprebbe dirmi dove mi trovo?»
«Nel tuo primo incubo!» fu l’agghiacciante risposta.
«Come… cosa… sta scherzando, vero?» biascicò sudando freddo.
L’uomo, che non si era mosso e continuava ad occultare lo sguardo dietro le falde e il tabarro retto dall’avambraccio, rispose: «Gli incubi che tormentano le tue notti, e che ti hanno spinto a scappare da te stesso, non sono uno scherzo!»
Matteo sbiancò in volto: come poteva un estraneo sapere, oltre alle sue tormentate notti, che quella sera un incubo lo aveva fatto balzare dal letto costringendolo, dopo aver indossato sveltamente tuta e scarpe da jogging, mentre sua moglie cercava di trattenerlo in tutti i modi, a scappare dai suoi incubi saltando a bordo della sulla sua Audi A8, correndo, poi, come un pazzo lungo la provinciale senza una meta precisa?
«Ma tu… chi sei, tu?» gli chiese allora.
«Non ti dicono niente, le facciate delle case?» rispose l’uomo senza scoprirsi. «Prova ad immaginarle più basse e larghe, invece che alte e sottili.»
Matteo si mise ad osservare la facciata dell’edificio più vicino. Lavorando di fantasia allargò e abbassò l’immagine; raggiunta una dimensione armonica, immaginò la luce colorata di un Luna park prendere il posto di quella azzurrognola intermittente. La facciata della casa degli specchi” pensò, mentre vedeva un bambino tenuto per mano dalla madre entrare.
Continuando ad immaginare vide il bimbo ridere davanti ad uno specchio deformante che allungava all’inverosimile la figura; poi lo vide sgranare gli occhi impaurito, quando un volto dal sorriso allungato riflesso dallo specchio fu interpretato dalla fantasia del piccolo come fauci spalancate pronte ad ingoiarlo.
Udì il bimbo urlare e chiamare la madre che, poco più avanti, osservava ridendo la propria figura ingrassata all’inverosimile.
Osservò la madre correre da lui, e il bambino girarsi indicando l’uomo con il tabarro e il cappello nero che si allontanava ridendo. «Tu sei l’uomo nero che ha innescato tutti i miei incubi… sei il mostro della casa degli specchi che veniva a farmi visita ogni notte, per più di tre anni!» urlò arretrando inorridito.
L’uomo abbassò il tabarro, alzò il capo e mostrò il suo volto cereo, stretto, sciancrato e allungato. Pareva una maschera di lattice che si dilatava, arrivando con il mento a toccare lo sterno quando liberò una grassa risata, che Matteo percepì ancora una volta come fauci spalancate pronte a divorarlo.
Non vi erano più dubbi, era lui! Ora, Matteo era veramente terrorizzato; il battito cardiaco accelerò, avrebbe voluto scappare; già, ma dove andare se non sapeva nemmeno dove diavolo era finito? E poi, c’era pure quel particolare di non poco conto: vedersi materializzare il suo primo incubo davanti allo sguardo, lo aveva come pietrificato.
«Perché sei tornato? Dove mi hai portato? Cosa vuoi ancora da me? Lasciami andare, ti prego» lo implorava singhiozzando.
L’uomo dell’incubo si ricompose, il mento risalì di qualche centimetro assumendo un’espressione seria. «Guarda che il prigioniero, qua dentro, non sei tu!» lo informò l’uomo.
«Cosa?!» fece, incredulo, Matteo. «E chi sarebbe il prigioniero, tu?»
«Noi!» rispose lapidario.
«Noi?!» fece ancora Matteo, guardandosi attorno. «Io non vedo nessun’altro… se è uno scherzo, ti avverto che è durato fin troppo!» urlò disperato.
«Non è costume degli incubi, scherzare» replicò pacato, con il solito tono baritonale. «Sono stato il tuo primo incubo, rammenti, ti sono figlio, come ogni tuo altro incubo che concepisti. Ho atteso l’occasione giusta, ed ora è finalmente giunta… Tu ora sei qui, nel posto dove mi hai creato e imprigionato molto tempo fa. Cosa credi, che sia stato facile per me, per noi, passare le giornate qua dentro, inventandosi sempre nuove trame da offrirti la notte per tenere acceso il fuoco del terrore?»
Il volto parve scivolare in basso, le borse sotto agli occhi si allungarono, palpebre e sopracciglia, piegandosi come virgole verso il basso, fecero assumere alla maschera di lattice un’espressione tristissima, la mestizia contagiò anche il tono: «Eppure in principio ci divertivamo insieme, io e te da soli, rammenti? Io sì, ricordo giornate in solitudine dentro la mia casetta, a creare situazioni terrificanti da mettere in scena la notte per spaventare chi mi aveva concesso ospitalità. In fondo, mi accontentavo di poco. Un paio d’ore da trascorrere con te ogni notte… furono tre anni intensi e proficui, meravigliosi, per entrambi. Poi, la solita routine finì per stancarti, non riuscivo più a spaventarti; ormai ero arrivato al punto di strapparti pure qualche sorriso, come quegli odiosi incubi imbellettati: i sogni. E questa mia impotenza finì con l’intristirmi. Allora, quando tu, osservando il giardiniere potare gli alberi del giardino, concepisti il tuo secondo incubo: l’uomo con le motoseghe al posto delle mani, ti chiesi di lasciarmi libero di andarmi a cercare un’altra mente a cui donare la mia arte… ottenendo in cambio solo una vaga promessa. Così, ora, avevo un amico con cui trascorrere le lunghe giornate; ma, di riflesso, le notti le dovevo passare chiuso nella mia casetta, perché tu volevi sollazzarti solamente con lui. Durò poco il giochino, meno ancora dei nostri stupendi e terrificanti tre anni… ti stancasti pure di lui… e allora concepisti il tuo terzo e sempre più orripilante incubo. E ancora una volta promisi, questa volta non solo a me, di lasciarci liberi, ma poi non lo mantenni… come tutte le altre volte che, dopo aver generato nuovi incubi, promettevi ai precedenti di lasciarli andare. E così la nostra comunità, nel corso degli anni s’ingrossò, arrivando a dodici poveri incubi imprigionati, in attesa dell’occasione giusta per fuggire. “Dobbiamo pazientare ancora un po’, ormai un solo incubo non riesce più a soddisfare la sua brama di terrore… è un incubo-dipendente che deve alzare continuamente l’asticella, l’altra notte ha richiamato due di voi contemporaneamente, ma non lo hanno soddisfatto. Presto, molto presto, ci farà uscire tutti assieme… quella sarà l’occasione per sopraffarlo e liberarci di lui” avevo detto un mese fa ai miei fratelli. E come previsto, questa notte sei tornato qua dentro e hai aperto le porte di tutte e dodici le case.»
Matteo si strinse la testa tra le mani. «Qua dentro, dove! Dimmi almeno dove ci troviamo?!» urlò concitato.
«Proprio lì, dove tieni le mani» rispose serafico l’uomo.
Matteo tolse le mani dalla testa. Le guardò allibito, poi alzò lo sguardo, puntò gli indici contro le tempie. «Intendi… nella mia testa?» gli chiese incredulo.
L’uomo indicò la volta celeste. «Secondo te, cosa potrebbero essere quelle scariche elettriche che trasmettono informazioni da un punto luminoso all’altro?»
Matteo rifletté. “Dati inviati tramite scariche elettriche… punti luminosi, terminali dove si scambiano input che vanno a comporre pensieri.”
Sgranò gli occhi. «Sinapsi elettriche, o forse neuroni!» esclamò.
«Vedi che ci sei arrivato» ghignò l’uomo.
«Ma come sono potuto entrare nel mio cervello?» si domandò l’esterrefatto Matteo.
«La domanda giusta sarebbe: ora come faccio a uscire?» rispose rilanciando il quesito l’uomo.
«Già!» fece Matteo. Ci pensò su, poi, non trovando risposta, lo chiese all’uomo. Il quale, mostrando l’indice e il medio ben tesi, lo rese edotto: «Esistono due dimensioni comunicanti… La vita è un sogno… e un incubo… basterebbe eliminarne una parte, quella riflessa dallo specchio deformante, oppure l’altra…» chiuse il medio lasciando eretto solamente l’indice «per essere… se non felici, perlomeno sereni… all’interno di una delle due dimensioni.»
«Ho capito, mi basterà dimenticare questo posto… da incubo, e tutto tornerà nella normalità» tirò le somme Matteo. Rifletté un attimo, poi aggiunse: «Più facile a dirsi che a farsi… sono anni che cerco di liberarmi dagli incubi senza riuscire a cavare un ragno dal buco.» Esausto e confuso guardò l’uomo che ascoltava interessato e gli chiese: «Tu, mi potresti aiutare?»
L’uomo annuì. «E’ molto più semplice di quel che credi… Basta osservare le figure deformate, dalla giusta prospettiva.»
«Come? Non comprendo, puoi essere più chiaro?» gli domandò, preoccupato.
«L’immagine riflessa nella casa degli specchi, non era quella che tu, a torto, ritenesti deformata!» rispose, mentre, con un cigolio sinistro, le porte delle altre case iniziavano ad aprirsi.
«Dunque, la mia felice realtà sarebbe stata quella di là dallo specchio. Ed io, finora avrei vissuto, o solo immaginato, una vita riflessa e deformata, ergo: infelice!» realizzo alla fine Matteo. E chiudendo gli occhi si rivide dietro lo specchio, approfittare dell’attimo di spavento procurato dall’immagine distorta proiettata dal passaggio alle sue spalle di un uomo con indosso un tabarro e in testa un cappello a larghe tese, per spingere la mente a concepire il primo incubo.
«Furono dunque le paure creative di un bambino, stimolate osservando per un istante l’immagine riflessa di un uomo con tabarro e cappello mentre transitava alle sue spalle, che mettendo in comunicazione le due dimensioni concepirono l’osmosi malata tra sogno e realtà, dando inizio ai suoi incubi ricorrenti» concluse affranto, aprendo gli occhi, rimanendo agghiacciato da quello che gli si parò davanti.
Volgendo lo sguardo all’intorno vide i suoi incubi avvicinarsi minacciosi. C’erano tutti e dodici, dall’ultimo, il macellaio dalle orbite oculari vuote che brandiva la mannaia grondante sangue, al primo, ovvero l’uomo dal volto di lattice deformato, che ghignando lo salutò: «Nonostante tutto, abbiamo vissuto degli ottimi momenti di terrore, insieme… addio, padre!»
«Nooooo!!!!» urlò Matteo rannicchiandosi in posizione fetale contro la fiancata dell’automobile. E mentre i dodici incubi che gli avevano reso impossibile la vita lo sommergevano, ebbe il tempo di udire una voce baritonale, chiosare lapidaria: «Sei soltanto un incubo che voleva farsi sogno… bentornato a casa.»
***********************************
«Allora, dottore, com’è morto?» chiede il capitano dei carabinieri.
«Dalla posizione, rannicchiato contro il fianco della macchina finita nel prato, si direbbe per ipotermia» risponde il dottore.
«Già, stanotte c’erano meno sette gradi, e lui era uscito di casa in tuta ginnica» dice il capitano.
«Due cose non mi tornano…» fa il medico, indicando l’automobile. «Dopo che la macchina è planata dalla strada nel prato, deve essere sceso a controllare i danni. Ma poi, una volta accertato che poteva ripartire, perché invece di tornare nell’abitacolo si è rannicchiato in posizione fetale, con quell’espressione agghiacciata e gli occhi sbarrati? Manco avesse incontrato il demonio in persona.»
«Non ci è andato troppo lontano, sa? La moglie ha detto che ieri notte era balzato dal letto in preda agli incubi, dicendo che dodici demoni lo stavano fagocitando» lo informa il capitano.
Il medico sospira, osserva i becchini adagiare il cadavere nella cassa, e chiosa: «C’è un universo intero, tutto da scoprire, dentro la testa di ognuno.»
FINE
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L'AUTORE Vecchio Mara
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Giancarlo, permettimi qui di segnalarti con divertimento che hai appena "vinto una gara." Questo tuo, con cui mi hai appena risposto, ho appena scoperto, è il commento numero 1000 dell'ancor giovanissma vita di P.i.a.f. (te lo comunico col commento numero 1001) e se qualcuno doveva ottenere questo risultato era proprio giusto che fosse uno di noi tre, io, te o Big Tony, visto che siamo coloro che finora hanno commentato più di tutti, mio è stato il numero 999 (a Elisabeth) e tuo, con questo, appunto, il 1000, non credevo che ci saremmo già arrivati questa sera, speravo di vincere io ma mi hai fregato, birbantello, ah ah. Di nuovo ciao.
Che storia, Giancarlo...mi hai tenuto col fiato sospeso, di mattino presto. io la invidio questa vostra fantasia, tua e di quelli che riescono ad inventare queste storie fantastiche, horror o noir in genere.C'ho provato, e sono riuscito a scriverne solo uno, forse nemmeno malaccio, passabile diciamo...ma che fatica! L'ho ripreso almeno 5 volte prima di finirlo, mentre i miei autobiografici li inizio e li termino in un massimo di due ore. Avessi una velocità di battitura adeguata in mezz'ora il racconto andrebbe in porto. Questo tuo mi è piaciuto fin dall'inizio, la descrizione dello sbandamento mentale che si prova viaggiando con la nebbia è risultata davvero reale, sai quante volte è successo anche a me, specialmente negli anni passati quando la nebbia dalle mie parti la faceva da padrona. Che dire di più...come sempre ben scritto, scorrevole e la storia ha pure un finale a sorpresa che ci fa ricalare nella realtà dei fatti. complimenti...ciaociao.