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"PUNTO E A CAPO" Racconto Giallo / Noir / Thriller
di Vecchio Mara
pubblicato il 2017-11-05 14:28:48
L’estate dei fuochi
Estate 2017
Eccola lì, nuda, di spalle, imperlata di sudore davanti alla finestra di primo mattino, a farsi accarezzare dalla brezza marina.
E io qui, dentro il letto a rimirarla come allora, come sempre.
Dopo tanti anni mia moglie, Lucrezia, ha voluto ritornare dove tutto finì… per cosa, poi? Per ritrovare l’antica passione o per rinnovare il rimpianto, il dolore.
Dopo stanotte, ho compreso che ritrovare la passione, se non è l’ultimo dei suoi pensieri, sarà comunque una pia illusione.
Abbiamo fatto l’amore… ovvero: io! Ho provato a fare l’amore con lei, mettendoci la dovuta passione… Lei, ha solo assecondato il mio desiderio come un atto dovuto. Un premio… peggio, il pagamento per aver guidato la macchina fin quassù.
Non fosse per i trentasei trentasette gradi che normalmente irradia il corpo umano, data la freddezza mantenuta mentre io mi dannavo provando invano a farla eccitare… sarebbe stato come stringere carne morta! E non da ieri, ma da anni. Da quella caldissima estate dei fuochi che incendiava i boschi e accendeva passioni destinate a bruciare e mutare, in ardente livore.
Alcune alture, che allora rammento risparmiate, sono già state intaccate: l’avanguardia di un’altra estate dei fuochi.
Tutto così uguale ad allora, verrebbe da pensare… ma io non ho timori di sorta: so per certo che nulla accadrà di sconvolgente. E non perché all’epoca eravamo poco più che trentenni.
Mancano tre insostituibili protagonisti per replicare il passato: la villetta ridotta in cenere dei Regalli… i Regalli… e la passione che innescò il dramma.
*****************************************
L’avevamo cercato con caparbia determinazione, nelle agenzie immobiliare e sui siti specializzati in case vacanze, un bilocale in uno dei borghi delle Cinque Terre. Ma non avendo trovato neanche uno scantinato compatibile con le nostre finanze, alla fine ripiegammo su un casolare ristrutturato sulle colline liguri.
Rammento che era di maggio, quando ci recammo a Monte Rosso per incontrare l’agente immobiliare che, in poco più di un quarto d’ora, ci avrebbe accompagnati con la sua automobile a visionare l’immobile: una graziosa casetta sobriamente arredata appena sopra i vigneti, con vista splendida sul mare delle Cinque Terre. Due soli locali, neanche troppo grandi, cucinotto, bagno e posto auto, che a noi parvero i sontuosi ambienti della reggia di Caserta.
Un’ora dopo avevamo siglato il compromesso, e ai primi di giugno eravamo tornati in Liguria, nello studio di un notaio a Monte Rosso, per la stipula del rogito.
La sera, dopo aver pranzato a panini guardando il mare; aver trascorso il pomeriggio a rassettare la nostra nuova dimora estiva; aver cenato e brindato al nostro favoloso acquisto in un ristorante di Monte Rosso. Ce ne tornammo tristemente nell’afa opprimente di Milano. Io, che all’epoca dirigevo un Bricocenter; e Lucrezia, impiegata in una filiale cittadina dell’Unicredit; avevamo chiesto e ottenuto di consumare le nostre ferie nel mese di luglio.
Così, il primo luglio 2003: rammento fosse di martedì. Dopo aver riempito all’inverosimile la Volvo station wagon, sotto una cappa di calore opprimente già di primo mattino, lasciammo l’invivibile Milano per rifugiarci nell’incanto delle Cinque Terre, sperando di trovare al nostro ritorno un clima un po’ più umano.
Dopo aver scaricato bagagli e quant’altro dalla capiente Volvo e averli portati dentro casa, mentre Lucrezia sistemava gli indumenti nell’armadio presi la macchina e scesi in paese a comprare la bombola del gas liquido: la rete del gas metano non aveva raggiunto le case sparse sulle colline.
«Quando avresti intenzione di cambiare il rubinetto del lavello?» mi chiese Lucrezia durante la cena.
«Sicuramente, domani mattina» risposi prontamente.
«Sicuramente?» fece Lucrezia alzando un sopracciglio.
«Te lo prometto, amore…» ribattei languidamente. Indicai la cassetta degli attrezzi in un angolo. «I ferri del mestiere son già lì che fremono… ma stasera non posso proprio… mi attende un lavoretto molto più gratificante» conclusi puntandole gli occhi nel decolté, strappandole un sorriso complice.
Che il rubinetto gocciolasse in continuazione, ce n’eravamo accorti il mese prima. Così, approfittando del mio ruolo avevo preso un miscelatore dagli scaffali del Bricocenter, pagandolo usufruendo dello sconto dipendenti; ripromettendomi che il primo lavoretto durante le ferie, sarebbe stato quello di sostituire il rubinetto gocciolante della cucina.
Come le avevo assicurato la sera, il mattino seguente, dopo aver fatto colazione, mi stesi supino sul pavimento in cotto e, appoggiando la testa sotto il lavello, iniziai a operare.
«Quanto ci vorrà?» mi chiese Lucrezia.
Osservandola dal basso in alto con occhi indaganti, risalendo le lunghe gambe ambrate che terminavano dentro un pantaloncino azzurro, quasi inguinale, lo sguardo si arrestò sulla canotta bianca che lasciava poco all’immaginazione. Per un attimo fui tentato di lasciar perdere il rubinetto e, dopo averla stesa sulle tavelle in cotto, dedicarmi a lei con ben altro brio.
Lucrezia, che aveva capito fin da subito dove stessi andando a parare, senza attendere risposta pose una pietra tombale sulle mie arrapanti intenzioni. «Fai con calma. Intanto io vado a fare un po’ di jogging.»
E prima che avessi il tempo di replicare, se n’era già andata a correre sui sentieri che si dipanavano tra i vigneti.
Impiegai una buona mezz’ora per sostituire il rubinetto usurato. «Sono un bagno di sudore» realizzai, sfatto dal caldo e dalla fatica, guardandomi la maglietta madida appiccicata alla pelle.
Dopo una lunga e rilassante doccia uscii, e scrutando lungo il sentiero cercai di capire dove si trovasse Lucrezia.
«E’ quasi un’ora e ancora non si vede spuntare, sarà mica scesa fino al mare?» mi domandai tornando dentro casa, consigliato da un sole già implacabile alle dieci di mattina.
«Ed ora, che faccio?» mi chiedevo aprendo e chiudendo il miscelatore appena montato. Accesi lo stereo, mi buttai supino sopra il letto con le mani intrecciate dietro la nuca, chiusi gli occhi e rimasi in attesa; da solo, lì in collina, non sapevo proprio che fare.
«Leandro? Dove sei, Leandro?» la voce di Lucrezia mi colse nel dormiveglia. «Mah! Sei pazzo? Che ci fai a letto con questa giornata?» fece inorridita entrando in camera.
Guardai l’orologio sul comodino. «Le undici!» proruppi balzando dal letto. «Almeno qui si respira… come si fa a correre per più di due ore con questo caldo?»
Lucrezia sorrise. «Ma va’ là! Fra andata e ritorno avrò fatto si e no mezz’ora» mi informò mentre si sfilava la maglietta.
«A sì?» feci sgranando gli occhi su un seno praticamente perfetto.
«No è…» ribatté Lucrezia mettendo le mani avanti. «Il desiderio più sconvolgente che ho in questo momento…» si tacque giusto il tempo per sfilarsi i pantaloncini. E mentre io già pregustavo il seguito dentro il letto, concluse: «E’ quello di una doccia gelata!» e ridendo corse in bagno, lasciandomi a bocca asciutta.
«Dimenticavo!» la udii esclamare tra gli scrosci della doccia. «Oggi siamo invitati a pranzo!»
«A pranzo?» esclamai stupefatto. Riavutomi dalla sorpresa, le chiesi: «E da chi? Non mi pare di conoscere qualcuno quassù.»
«Dai Regalli. I nostri vicini di casa» rispose uscendo dalla doccia.
«I Regalli…» feci corrugando la fronte. «No, non mi dicono niente… e quando li avremmo conosciuti… questi misteriosi: Regalli?»
«Inizia a vestirti, poi ti spiego» disse mentre si asciugava i capelli con il phon, nuda davanti allo specchio.
Con passo felpato le arrivai alle spalle. «Ti prego, non ora, dobbiamo andare…» disse in tono implorante.
«Dai Regalli. Ho capito!» sbuffai andando in camera a cercare un paio di jeans e una maglietta.
Mentre indossava perizoma e reggiseno, mi spiegò che appena uscita aveva incontrato Arianna, moglie di Aristide Regalli, un pittore che abitava in una graziosa casa poco più avanti; che avevano camminato un po’ assieme e che arrivati nei pressi di casa sua l’aveva invita a entrare a prendere un tè.
Poi, mentre indossava il resto (un paio di jeans e una canotta bianca), aggiunse che ci saremo arrivati in un quarto d’ora attraverso il sentiero che tagliava tra le vigne. La qual cosa non è che mi fece fare salti di gioia; un quarto d’ora sotto il Sole prossimo al mezzodì, equivaleva a un tentato suicidio per il mio fisico che, in quell’estate incredibilmente bollente, soffriva di una strana forma di avversione nei confronti delle temperature superiori a quelle del mio ufficio dotato di aria condizionata.
Dopo aver camminato per una decina di minuti in leggera salita, il sentiero svoltò a destra e si inserì su un versante dove la vegetazione brada aveva sostituito le vigne e i terrazzamenti.
«Eccola là, la casa dei Regalli!» esclamò Lucrezia, indicandola con il braccio teso.
La casa; una graziosa costruzione in legno con una terrazza aggettata nel vuoto, sorgeva su uno spiazzo circondato da una ricca e varia vegetazione arborea.
«Andiamo, cinque minuti e ci siamo» aggiunse entusiasta allungando il passo. Mentre io la seguivo ansimando sul sentiero fattosi improvvisamente ripido.
Una signora, con indosso un tubino bianco che terminava poco sopra le ginocchia, si sbracciava dalla terrazza attirando la nostra attenzione.
«Ciao, Arianna! Arriviamo!» esclamò Lucrezia allungando il passo.
Subito dopo, Arianna Regalli lasciò la terrazza per andare a ricevere i suoi ospiti sulla porta di casa.
Arianna era una donna alta, snella, dal fisico straordinariamente tonico ma non più giovanissima; e le impietose rughe che le solcavano il viso erano lì a certificare che la signora, seppur di gran classe e ancora fascinosa, aveva doppiato la sessantina. Scoprirò poi, conversando con lei, oltre ai sui trascorsi da maratoneta di buon livello, che si teneva in forma correndo in mezzo ai vigneti.
Quando Lucrezia ci presentò, notai un non so che di voluttuoso accendersi nei grandi occhi color smeraldo di Arianna; e questo, lo confesso, mi procurò un brivido di piacere. Lei parve comprendere, gratificandomi con un sorriso complice, prima di condurmi sulla terrazza per presentarmi al marito.
Il sessantacinquenne Aristide Regalli, capelli lunghi legati dietro la nuca, bianchi come la barba ben curata, indossava dei bermuda chiari, ed esibendo con orgoglio il torso nudo e villoso intratteneva gli ospiti conversando amabilmente; mentre, seduto su uno sgabello sistemato sotto un grande ombrellone beige, dopo uno sguardo al paesaggio circostante, distendeva rapide pennellate di colore sulla tela posta sul cavalletto.
Arianna mi aveva fatto accomodare su un ampio divano di stoffa bianca. Dopodiché aveva fatto sedere Lucrezia alla mia destra e, dopo averci chiesto se desiderassimo qualcosa di fresco, si era recata in cucina per tornare poco dopo con un vassoio sul quale campeggiava una brocca di limonata ghiacciata e quattro bicchieri; che posò sul tavolino davanti al divano prima di accomodarsi alla mia sinistra. Il contatto con la pelle calda del suo braccio mi procurò una piacevole sensazione che, una volta ancora, lei parve comprendere, regalandomi il solito sorriso malizioso.
Conversando di pittura con Aristide, mi sovvenne di chiedergli se dipingesse solamente paesaggi.
«Anche splendidi ritratti femminili… un tempo. Quando ancora la Musa sapeva ispirarmi» rispose sibillino con quella sua voce pastosa.
Ci pensò Arianna a svelarmi il senso. Fissandomi nello sguardo, usando un tono dal retrogusto malinconico, così si espresse: «Intende dire che quando ero più giovane, e trovava piacevole ritrami nuda nelle pose più ardite, aveva riempito le pareti di ogni centimetro quadrato della mia pelle.»
Rimasi a guardarla interdetto, mentre lei reggendo imperterrita il mio sguardo attendeva la replica. «Beh, se mi posso permettere; a mio parere Aristide si sta perdendo il momento migliore, per cogliere il frutto di una matura femminilità» dissi alla fine in evidente imbarazzo.
Non saprei come mi fosse venuta e nemmeno cosa intendessi esprimere realmente, vista la mia conclamata difficoltà a imbastire frasi romantiche ad effetto.
Fatto sta che Arianna parve apprezzare il complimento. «Grazie, caro» fece languidamente, sfiorandomi il volto con il dorso della mano. Ma subitamente aggiunse, accigliandosi e mutando decisamente tono: «Peccato che non sai dipingere. Avrei posato più che volentieri per un adulatore, quale ti stai dimostrando.»
“Che si sia offesa?” mi chiesi sul momento, arrossendo, temendo il peggio. Ma subito dopo la sua risata cristallina, che si portò dietro quella di Aristide e poi di Lucrezia, mi rinfrancò, trascinandomi al riso.
Quando Aristide terminò di dipingere, prese la tela dal cavalletto e mi invitò a seguirlo nello studio. Mentre mostrandomi le tele appese alle pareti e quelle sparse qua e là alla rinfusa, mi spiegava la sua tecnica pittorica; Arianna, coadiuvata da Lucrezia imbandiva la tavola per il pranzo sotto l’ombrellone.
Arianna si rivelò un’ottima cuoca. Ed entrambi i nostri ospiti, dei perfetti anfitrioni.
«Brindiamo alla nostra amicizia!» esclamò Aristide alzando in alto il calice di spumante, dopo che Arianna aveva servito il dolce.
Con l’intelletto ottenebrato dalle abbondanti libagioni con cui avevamo innaffiato l’antipasto di pesce, il primo e pure il secondo sempre di pesce, brindammo allegri. Fu a quel punto che Aristide se ne uscì con una proposta che, a mente lucida, avrei anche potuto giudicare sconveniente.
«Ci terrei a lasciare un segno di questa nostra amicizia, per far sì che il ricordo di questo e di molti altri giorni di questa calda estate che trascorreremo insieme, non vada perduto…» declamò stentoreo. Alzandosi Indicò Lucrezia. «Offro l’unica ricchezza che mi appartiene: la mia arte! Alla signora.»
Arianna ascoltava rapita. Mentre io e Lucrezia ci guardammo smarriti, cercando di capire dove volesse andare a parare. «Insomma…» fece lui tornando a sedersi. Guardò Lucrezia e proseguì
: «significa che sarei disposto a ritrarre Lucrezia…» volse lo sguardo su di me e concluse: «E farti dono del ritratto della tua Diva.»
«Sì… sì… lo voglio… lo voglio» diceva allegra Lucrezia facendo la vocina da bambina, battendo anche le mani. «Quando me lo puoi fare?» gli chiese poi, sempre più eccitata.
«Anche domani. Se siete d’accordo» rispose rivolgendosi ad entrambi.
«Sì… sì… sì… domani andrà benissimo» ribatté Lucrezia, sempre più eccitata dal troppo vino bevuto senza ritegno.
«Veramente, domani avevamo deciso di prendere la macchina e scendere giù, a Monte Rosso a fare il bagno» obiettai.
Lucrezia si accigliò. Aristide se ne avvide. «Ah!» fece alzandosi. Si portò accanto alla balaustra di legno e aggiunse: «In macchina, con questo caldo, per andare a distendersi su una spiaggetta affollata. Un vero e proprio carnaio!» allargò le braccia racchiudendo l’intero orizzonte. «Ma chi ve lo fa fare! Da quassù potete godere non di un scampolo di spiaggia, ma dell’intero mare delle Cinque Terre.»
Tornò verso di me. Indicando con l’indice i propri occhi, mi spiegò la sua filosofia: «Bagnarsi nell’acqua salmastra non ti riempirà lo sguardo… l’animo si ristora da quassù. Per quanto riguarda il corpo, invece…» si guardò attorno con circospezione, abbassò il tono: «ti confido un segreto: domani, Peppino il pescatore, porterà quassù una parte del pescato appena scaricato dalla barca; ancora vivo e guizzante. Naturalmente in quantità sufficiente per una tavola da quattro… Decidi tu, per il meglio» e concluse la recita da attore consumato sorridendo a Lucrezia che pendeva dalle sue labbra.
«Al mare… potremo andarci un altro giorno. Che ne dici, Leandro?» mi chiese facendomi capire nel tono quale fosse il suo desiderio.
«Cosa devo indossare?» chiese felice ad Aristide, dopo la mia capitolazione.
«Viste le temperature non propriamente nordiche… il paltò, direi di no!» rispose ironicamente Aristide, trascinandola al riso. La squadrò da capo a piedi. «Così andrà benissimo… devi essere naturale. Vorrei donarti un ritratto in cui ti possa riconoscere nel luogo e nel tempo dove hai posato e trascorso un felice momento. Voglio dipingere una donna vera… non a un’entità eterea» concluse con voce avvolgente.
«Accomodatevi, Aristide sta sistemando l’attrezzatura sul terrazzo» disse Arianna accogliendoci.
Non potei fare a meno di notare che lo stacco totale tra il tubino nero e la pelle diafana, esaltava quest’ultima, “sapessi quanto vorrei toglierti quello straccetto di dosso” mi sovvenne in quel momento. E lì compresi che quella donna esercitava un’attrazione morbosa esaltando il mio lato lussurioso.
Aristide, a torso nudo con un panama sul capo, dopo averle sistemato sulla testa un cappello di paglia a tese cadenti, fece accomodare Lucrezia su una poltroncina accanto alla balaustra; in modo da poterla ritrarre con il verde delle colline alla sua destra e l’azzurro del mare sullo sfondo alla sua sinistra.
Io e Arianna, invece, ci accomodammo all’ombra sul divano addossato alla parete, alle spalle di Aristide. E lì, conversando, lo guardavamo disegnare i contorni del viso di Lucrezia sulla tela.
«Preparaci un caffè, Arianna» fece a un certo punto Aristide.
Arianna, da buona padrona di casa, prima chiese se andasse bene anche per noi o se desiderassimo qualcos’altro; poi, ottenuto il nostro assenso, andò in cucina a preparare i caffè.
«Non c’è gas… devi andare sotto a sostituire la bombola» disse tornando poco dopo sconfortata.
«Ora no!» esclamò Aristide. «Non posso perdere quest’attimo ispirato.»
Una roba del genere non l’avevo mai sentita. Eppure bastava guardare i gesti ampi che faceva compiere alla mano prima di raggiungere la tela e disegnare i contorni degli occhi, per capire che era avvolto da una specie di trance creativa.
«E poi, non posso far arrostire la mia modella, entro mezz’ora dobbiamo terminare la prima posa» aggiunse. E lì, compresi che avremmo dovuto trascorrere molte altre mattine in compagnia dei Regalli, prima che il ritratto fosse finito.
«Va beh…» sospirò Arianna stringendosi nelle spalle. «Niente gas… niente caffè.»
«Se posso essere utile…» feci appena in tempo a dire.
«Ecco, bravo. Fatti aiutare da Leandro» m’interruppe Aristide prendendo la palla al balzo.
«Vieni» disse Arianna, facendomi cenno con il capo di seguirla.
Entrammo in casa, dopo essere usciti dall’ingresso principale, girandole attorno arrivammo sotto l’impalcato in legno della terrazza. «Eccola lì» fece Arianna puntando lo sguardo sulla bombola da sostituire. «Prendi una di quelle due» aggiunse indicando le bombole di scorta.
“La chiave per svitare la valvola, dov’è?» le chiesi.
Arianna si guardò attorno, poi volgendo lo sguardo in alto, esclamò: «Aristide! La chiave inglese, dove l’hai messa?»
«Nella cassetta degli attrezzi, dentro lo sgabuzzino» si udì giungere dall’alto, attraverso l’impalcato del terrazzo.
Arianna aprì una porta, entrò e, afferrando le maniglie con due mani, ne uscì con la pesante cassetta degli attrezzi. «Cristo!» fece quando perse la presa di una maniglia e la cassetta, piegandosi di lato rovesciò a terra in un clangore assordante un numero imprecisato di chiavi inglesi, pinze e martelli.
«Lascia, faccio io» dissi piegandomi prontamente davanti a lei per raccogliere gli attrezzi e rimetterli nella cassetta. «Prendo questa per svitare la valvola», dissi ancora alzando lo sguardo, dopo aver rimesso le altre nella cassetta.
Lei, in piedi, mi guardava dall’alto in basso. Il mio sguardo, guardandola dal basso in alto, si arrestò a metà delle sue cosce: più o meno dove terminava il corto tubino nero.
“Che colore sarà il perizoma?” mi scoprii a chiedermi.
Arianna si abbassò piegando le gambe «Ti sei scordato questa» disse sorridendo passandomi una pinza che aveva raccolto dietro la cassetta.
«Nero» mi sovvenne mentre la prendevo, guardando tra le gambe leggermente divaricate di Arianna.
«Cosa?» fece lei, aggrottando la fronte. «Niente… volevo dire: grazie… mi è uscito nero» risposi imbarazzato. «Sostituisco la bombola» aggiunsi alzandomi.
«Ecco fatto!» esclamai passandole la chiave.
«Sei un tesoro…» sussurrò avvicinandosi mentre la prendeva. «Grazie» aggiunse avvicinando pericolosamente le sue labbra alle mie.
Fu questione di un attimo… rammento il profumo del suo alito, il calore delle sue labbra e la sua lingua che si legava alla mia. Pochi intensi secondi… poi…
«Dobbiamo andare giù, al bar, per il caffè? Allora l’avete cambiata ‘sta bombola, o no?» la voce di Aristide ci riportò alla realtà.
«Abbiamo fatto, Arriviamo!» rispose Adriana. «Andiamo» sussurrò accarezzandomi.
E così, la giornata si concluse con un nulla di fatto. Ma ormai eravamo ben consci che l’attrazione reciproca ci avrebbe spinto a cercare altre occasioni per completare l’opera che avevamo appena iniziato.
«Il Sole si è fatto implacabile. Per oggi, direi che può bastare» disse Aristide. «Domani mattina vorrei iniziare prima… se sei disposta a posare alle otto, avremmo due ore buone per portare avanti il lavoro» aggiunse rivolgendosi a Lucrezia.
«Veramente…» sospirò, «avrei promesso a Leandro che saremmo andati giù, al mare, domani mattina» rispose sconsolata.
Compresi che ci teneva di più a posare per il suo ritratto che a bagnarsi nel mare. Ma non fu certamente per quello che intervenni mostrandomi magnanimo. «Il mare non scappa… e un mese è bello lungo. Ci andremo un altro giorno, quando il ritratto sarà finito, a fare il bagno.»
Lessi gratitudine e tanto amore nello sorriso aperto di Lucrezia, e ne fui felice. Notai il sorrisetto malizioso di Arianna, e lo fui ancora di più.
Quella notte mi successe di fare l’amore con Lucrezia senza entusiasmo. Non era mai accaduto prima.
Era più di mezz’ora che, seduto sul divano, vedevo Aristide osservare con occhio esperto Lucrezia, compunta nella posa del ritratto, e poi tirare pennellate alla tela. Li guardavo così, come si fa quando si pensa ad altro e lo sguardo cade per caso su qualcosa che ti sta attorno.
La mia mente era altrove, fantasticava pensando ad Arianna che ancora non si era vista: Aristide ci aveva informato che avevano fatto le ore piccole e che lei era ancora a letto.
Mentre pensavo come e quando sarei riuscito a procurarmi un’altra occasione per rimanere da solo con lei… l’oggetto dei miei desideri, arrivando dal soggiorno si palesò sulla terrazza: infradito ai piedi e miniabito azzurro da urlo.
Esordì salutandoci, poi domandò ad Aristide: «Ti sei scordato che mi devi accompagnare all’ufficio postale? Ne hai ancora per molto?»
«Non puoi fare da sola? Oggi mi sento particolarmente ispirato… e si è alzata pure una leggera brezza, se Lucrezia è d’accordo, andrei avanti almeno fino alle undici» le disse attendendo che Lucrezia si esprimesse. Lei annuì.
«E io, come ci vado giù al paese, a piedi?» disse allora, contrariata, Arianna.
«Quante volte te l’avrò detto di prendere la patente…» sbuffò Aristide.
Un’occasione da non perdere: mi sovvenne. «Posso accompagnarti io… tanto qui non servo» dissi.
«Ecco, bravo! Renditi utile» fece Aristide sorridendo.
Guardai Adriana: l’idea parve solleticarla. Osservai Lucrezia che annuì grata; mentre Aristide in piena trance creativa si era come estraniato e, in silenzio, spargeva colore sulla tela.
Dieci minuti dopo guidavo la macchina di Aristide (una vecchia Renault R4, rossa) sulla strada che scendeva dalla collina verso il mare, con al fianco la splendida Adriana.
Ora che ero riuscito a rimanere solo con lei, mi ero come bloccato; di tutti i progetti che mi ero fatto, non riuscivo a iniziarne neanche mezzo. Mentre guidavo osservavo in tralice le sue splendide gambe, immaginavo chissà cosa… e non mi riusciva di esternare niente. Ascoltavo lei che parlava di cose futili, annuivo in silenzio e guidavo tenendo gli occhi fissi sulla strada lanciandole ogni tanto qualche occhiata voluttuosa; con una rapidità tale, da non lasciarle nemmeno in tempo di ricambiare.
«Tu non vieni?» mi chiese quando parcheggiai la macchina.
Le dissi che l’avrei attesa lì. Lei ribatté dicendo che il parcheggio era al Sole, che con quel caldo sarei andato arrosto e alla fine mi invitò a seguirla.
L’accompagnai all’ufficio postale e l’attesi all’esterno.
«E’ presto, facciamo un giro, vedo se trovo qualcosa di sfizioso da cucinare» disse uscendo. «Dammi la mano» aggiunse sfiorando la mia, sorprendendomi.
La guardai stranito, lei piegò gli angoli della bocca: poteva essere un accenno di sorriso, ma non ci giurerei. «Ti vergogni di me?» mi chiese poi, immalinconendosi.
Preso alla sprovvista, tentennai. «Ma no, che vai pensando…» mi giustificai guardandomi attorno. «E’ pieno di gente… tu vivi qui, ti potrebbero riconoscere…»
«Fregatene!» mi interruppe lapidaria.
«Cosa… come?» feci, sempre più sconcertato.
«Sì, fai come me: fregatene della gente e lascia volare il desiderio di tenermi stretta.» rispose fissandomi nello sguardo.
Io ero ammutolito, fermo davanti a lei come un ebete, incapace di decidere.
Arianna scrollò il capo, s’intristì ulteriormente e, incamminandosi, aggiunse: «Devo aver capito male.»
Rimasi lì, a guardare la donna che aveva invaso i miei pensieri allontanarsi. “Ma sì, chissenefrega” pensai andandole appresso.
Allungando il passò la raggiunsi, le cinsi la vita e, tirandola a me la baciai sulla guancia. Il suo sguardo s’illuminò, passando un braccio dietro la mia schiena mi cinse a sua volta. «Andiamo, caro» mormorò.
“Devo essere impazzito” pensavo mentre camminavamo in mezzo alla gente stretti l’un l’altro come due ragazzini.
Imbarazzatissimo, immaginando il corollario di commenti, non certo benevoli, nei suoi e anche nei miei confronti che ne sarebbero scaturiti; la vedevo salutare i bottegai tenendomi stretto e presentandomi con il suo nuovo vicino di casa.
Dopo quella passeggiata con la testa fra le nuvole, tornammo alla macchina. Eccitati, senza aver combinato niente e senza manco aver preso qualcosa per il pranzo, ce ne tornammo mestamente verso casa.
«Fermati lì!» esclamò all’improvviso, indicando una strada sterrata che si perdeva dentro un bosco di castagni.
Era quello che aspettavo. Sterzai a destra e portai la macchina il più avanti possibile; controllai dallo specchietto retrovisore: la strada non si vedeva più e il posto era ben ombreggiato, perfetto per quello che eravamo intenzionati a fare.
Già, ma cosa? Sulla R4, priva di ribaltabili, con la mia altezza che sfiorava il metro e novanta e la sua poco sotto il metro ottanta, non sarebbe stato facile acconciarsi.
«Vieni» disse invitandomi a seguirla.
Scesi, Arianna aprì il portellone: i sedili posteriori erano stati tolti. Ma anche così, stesi sul pianale di ferro attraversato dalle nervature di irrigidimento e comunque sempre troppo corto, sarebbe stato più doloroso che piacevole. Insomma, voglio dire, ne sarebbe uscito un rapporto stile sadomaso, il che non era proprio nelle mie corde.
In un angolo, ben piegato, c’era il copriletto imbottito che Aristide usava per proteggere le tele durante il trasporto. «Prendi quello», disse Arianna indicandolo.
Allungandomi lo presi e iniziai a stenderlo sul pianale.
«Ma cosa stai facendo?» mi chiese ridendo. E prima che avessi il tempo di rispondere, aggiunse: «Stendilo davanti alla macchina.
“Qualcuno potrebbe vederci» obiettai.
«Le castagne si raccolgono in autunno, chi vuoi che venga qui, con il mare a un tiro di schioppo?» provò a rassicurarmi.
«Ma…» feci appena in tempo a dire.
«Insomma!» sbuffò innervosendosi. «Fare l’amore con te, è più complicato che incontrare il presidente degli Stati Uniti!»
Compresi che se non volevo perdere il treno, avrei dovuto soddisfare i suoi desiderata. Così, stesi il copriletto nel sottobosco, davanti al cofano della R4. E da lì in avanti, complice il timore di essere spiati, fu qualcosa di eroticamente sconvolgente.
«Non c’era niente che mi convincesse. Vuol dire che mi arrangerò con quello che c’è dentro il frigorifero… un pranzo per quattro, riuscirò comunque a metterlo insieme» rispose ad Aristide che le chiedeva conto del perché fosse tornata a mani vuote.
«Almeno altre quattro pose» stabilì Aristide congedando la sua modella.
“Molto bene” pensai, pregustando altri quattro giorni infuocati, incrociando lo sguardo complice di Arianna.
Il giorno dopo, seduto sul solito divano, fremevo dalla voglia di rimanere solo con lei.
«Vado in cucina a prendere qualcosa di fresco, ne volte anche voi?» chiesi per scrupolo, rivolgendomi a Lucrezia e Aristide che, impegnati com’erano a far dell’arte, dissero di no.
Mi alzai e raggiunsi Arianna in cucina. Lei era ai fornelli, la pelle lucida di sudore me la ricordò stesa nel bosco di castagni alla fine di quel fantasmagorico amplesso.
«Che profumino» sussurrai arrivandole alle spalle. Appoggiandomi alle natiche le feci “sentire” quanto la desiderassi.
«Guarda che tua moglie potrebbe vederti» mormorò sorridendo, senza scostarsi.
«Ho voglia di te… come possiamo fare?» le chiesi mordicchiandole il lobo dell’orecchio destro.
«Qui non si può fare» rispose vogliosa, accarezzandomi.
«Dimmi tu, dove e quando?» insistetti sbaciucchiandola sul collo.
Lei, per agevolarmi, piegò leggermente il capo a sinistra e, mormorando, mi svelò il piano; che presumo avesse studiato nottetempo. «Domani mattina prendi una scusa e resta a casa. Quando Lucrezia arriverà per posare, dirò loro che vado a correre tra i vigneti e ti raggiungerò.»
«Sei diabolica» dissi infilandole una mano sotto il miniabito.
«Potrebbero vederci…» fece lei scostandosi. «Ora vai, a domani, tesoro» mi congedò baciandomi.
L’indomani mattina mi giustificai con Lucrezia dicendo che dovevo sistemare le finestre che non chiudevano bene e che l’avrei raggiunta più tardi. E quando lei uscì, mi preparai ad accogliere l’amante nel letto ancora pregno del caldo odore di mia moglie.
Lucrezia era stupenda, il suo fisico asciutto esaltato dai pantaloncini da maratoneta, neri come la corta canotta, mi mandò fin da subito in visibilio.
«Ti ringrazio, ma non sono venuta per il tè» mi rispose dopo che le avevo chiesto se desiderasse qualcosa. «Cos’altro c’è, temi che Lucrezia possa tornare all’improvviso?» domandò vedendomi titubare.
«L’altra volta eravamo fuori tiro… Ma ora… è praticamente qui, girato l’angolo» mi giustificai.
Arianna sorrise. «Non temere, Aristide sa come intrattenere le sue modelle» mi rassicurò levandosi la canotta.
In un altro momento e in un altro luogo, quella frase sibillina mi avrebbe dato da pensare. Ma lei, levandosi pure i pantaloncini, non mi lasciò nemmeno il tempo d’imbastirlo, un ragionamento.
I capelli corti, la pelle candida, il seno piccolo, il pube glabro; il fisico atletico di quella splendida sessantenne, l’opposto di quello morbido di Lucrezia, mi faceva impazzire. «Vieni» sussurrai prendendola per mano, accompagnandola in camera.
“Oggi mi è andata bene… ma non posso rischiare ogni volta di mettere in pericolo il rapporto con Lucrezia. Devo farla finita” pensavo sotto la doccia, dopo che Arianna se n’era andata.
Arrivai dai Regalli per l’ora di pranzo e li trovai, insieme a Lucrezia, sulla terrazza che guardavano le colline dietro la casa. Alzai lo sguardo e vidi una colonna di fumo alzarsi altissima in lontananza. «Sta andando a fuoco la vegetazione» mi informò Aristide.
«I soliti piromani» mi sovvenne.
«Può darsi… ma anche l’incuria ci mette del suo» disse lui. Indicò gli alberi vicino alla casa. «Se tenessero in ordine il sottobosco, pulendolo da sterpaglia e rami secchi, la gran parte dei roghi si potrebbe evitare»
Il rumore di un elicottero in avvicinamento ci fece volgere lo sguardo in direzione del mare. «Sta andando a scaricare acqua sull’incendio» disse Aristide, indicando il grosso recipiente agganciato al cavo. «Speriamo che un giorno o l’altro non debba venire a scaricare pure qui» aggiunse preoccupato. Sospirò. «Meglio non pensarci… andiamo a pranzo che è meglio, va.»
I miei buoni propositi di chiudere la storia con Arianna, durarono il tempo del pranzo. Subito dopo, mentre Aristide accompagnava Lucrezia nello studio per spiegarle lo stato dell’arte del ritratto, ci accordammo per l’indomani mattina. Di finestre e porte da sistemare ce n’erano rimaste; e se non fossero bastate, c’erano pure gli sportelli degli stipetti della cucina che non godevano buona salute.
E dato che ritrarre Lucrezia si rivelò più complicato del previsto, impiegai… o per meglio dire: impiegammo ben sei giorni io e Arianna per sistemarli tutti.
Ora che il ritratto era quasi pronto, e ad Aristide non serviva più la presenza fisica della modella, potevamo finalmente andare giù al mare.
E ci andammo… per ben due giorni di fila, prima di tornare alle cattive abitudini.
Lucrezia a fare la sua corsetta mattutina, ed io a correre appresso ad Arianna raggiungendola in un capanno nella vigna poco sotto casa nostra. Prima di riunirci tutti e quattro a casa dei Regalli per il pranzo.
«Sono state vacanze stupende» disse Lucrezia, facendo l’inventario, mentre si preparava per la solita corsetta mattutina.
Mancavano ormai cinque giorni alla conclusione delle ferie, e già la nostalgia iniziava a immalinconire i nostri sguardi.
Stavo per replicare quando dalla porta aperta, Arianna irruppe come una furia. «Tu! Vedi di girare al largo da Aristide!» proruppe puntando l’indice contro Lucrezia che, sbiancando in volto si lasciò cadere sul divano.
Io le guardavo attonito, cercando di comprendere il motivo di quell’irruzione.
Arianna capì. «A tua moglie non è bastato portarselo a letto… ora se lo vuole tenere per sé.»
Guardai Lucrezia che, coprendosi il volto con le mani, si mise a piangere.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» domandai, rivolgendomi ad entrambe.
«Fattelo raccontare da lei. Aristide è come impazzito, mi vuole lasciare per andare a vivere con tua moglie. Dice che è la sua nuova Musa, che con lei ha ritrovato la voglia di vivere, di dipingere ritratti e non solo e sempre panorami privi di vita pulsante. E ha minacciato di dar fuoco alla casa con me dentro, se non lo lascerò libero.» rispose affranta.
Guardai Lucrezia. «E’ vero?» non rispose.
«Se non vuoi perderla… portala via da qui, fintanto che sei in tempo. Aristide è uno psicopatico capace di tutto, anche di uccidere!» disse Arianna, il tono e lo sguardo terrorizzato mi agghiacciarono. «Andatevene lontano, lo dico per il vostro bene. Non voglio più vedervi da queste parti», concluse minacciosa. E se ne andò.
Impiegò un paio d’ore a raccontarmi, tra pianti e lacrime, come il giorno che avevo accompagnato Arianna in posta, era finita dentro il suo letto; e lì compresi che, evidentemente, i Regalli avevano esercitato fin da subito una morbosa attrazione su di noi.
Lucrezia, seppur presa da lui, titubava. Allora l’aveva convinta dicendole che lui non lo considerava un tradimento; perché Arianna sapeva che avrebbe fatto di tutto per portarsela a letto e il loro era un rapporto perfetto proprio per quello, perché si raccontavano le loro avventure di letto senza infingimenti. E che se dopo si fosse sentita in colpa, avrebbe potuto porre rimedio raccontandomi tutto quanto era successo fra di loro.
Mentre raccontava i dettagli del loro rapporto, realizzai che Aristide sapeva di me e Arianna e per questo era così sicura che Lucrezia non sarebbe tornata quando lei stava con me.
Forse Arianna, per disfarsi di una rivale in amore, aveva volutamente esagerato nel dipingere la personalità di Aristide. Ma visto la piega che stava prendendo la faccenda, compresi che se volevo salvare il mio matrimonio, dovevo portare via Lucrezia prima che Aristide le parlasse.
Guardai l’ora. «Prepara le valige, ce ne andiamo!» dissi, risoluto come non mai.
Lucrezia annuì, e a testa bassa si recò in camera.
Dopo aver staccato la luce, la bombola del gas e sprangato le imposte, controllai l’ora: mancava un quarto a mezzogiorno. «Possiamo andare» dissi rivolgendomi a Lucrezia che se ne stava prostrata rannicchiata in un angolo del divano.
Senza proferire verbo si alzò e andò a sedersi sulla macchina.
Controllai un’ultima volta che tutto fosse a posto e la seguii.
Un boato tremendo, mentre mi avvicinavo alla macchina mi fece trasalire.
«Aristide! Nooo!!!» proruppe Lucrezia balzando dal sedile.
«Fermati» urlai rincorrendola.
«Devo aiutarlo… ti prego, lasciami andare» mi implorava concitata, strattonando la mano per liberarsi della mia presa.
«Calmati Lucrezia… calmati e ci andremo insieme… ok?» provai a dirle.
Parve calmarsi. Ma appena lasciai la presa si mise a correre come una disperata in direzione della casa dei Regalli.
Compresi che sarebbe stato inutile tentare di fermarla, e allora decisi di andare con lei.
Mentre ci avvicinavamo, vedevamo un gran fumo nero alzarsi dalla collina. Quando arrivammo la casa di legno dei Regalli era ormai un gigantesco falò.
Lucrezia si accasciò a terra e, singhiozzando, si assunse responsabilità non sue. «E’ tutta colpa mia… lui mi amava… l’ha fatto per me.»
I vigili del fuoco trovarono il corpo carbonizzato di Arianna in camera da letto, quello di Aristide nel suo studio e due bombole di gas che dovevano stare di sotto in soggiorno.
Le indagini e le autopsie sui poveri resti stabilirono che Arianna era morta prima dell’incendio e Aristide prima che scoppiassero le bombole per soffocamento da fumo. Da lì, stabilirono che Aristide aveva prima ammazzato sua moglie; poi, dopo aver portato le bombole in casa aveva sparso del liquido infiammabile sul letto e le aveva dato fuoco, in ultimo si era ritirato nel suo studio e lì aveva atteso la fine.
Lucrezia non ne volle più sapere di passare le ferie in riviera. Allora decidemmo di venderla. Ma quella casa sembrava portare con sé una maledizione: proprio non si riusciva a trovare un acquirente. A quel punto, avendo quindici anni di muto sulle spalle, non ci rimase che affittarla per farci almeno il costo della rata.
Lucrezia non scoprì mai quello che c’era stato tra me e Arianna. Ma nonostante questo il nostro rapporto andò avanti per forza d’inerzia: Aristide e Arianna, in modo diverso erano rimasti con noi.
Lui, nel cuore di Lucrezia; e lei, alimentando i miei rimorsi per non essere ancora riuscito a confessare il mio tradimento a Lucrezia.
L’ultima rata del mutuo, Lucrezia pretese di saldarla in anticipo, prima di partire per le ferie. Quando le chiesi il motivo e perché dopo tanti anni voleva tornare a trascorrere le ferie in quella casa, la sua risposta, pronunciata con sguardo assente, mi gelò il sangue nelle vene.
«Ora che è veramente nostra… è giusto tornarci… tanto, se dovesse bruciare ci rimetteremo soltanto noi!»
FINE
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L'AUTORE Vecchio Mara
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