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"VIRGOLETTE" Saggistica Saggistica
di Roberta
pubblicato il 2020-06-14 19:41:14
Anche quest'anno, seppure in streaming e non dal vivo, ho partecipato ai Colloqui fiorentini. Tra i vari interventi sull'opera di Pavese, dalle poesie ai romanzi al Mestiere di vivere, mi ha colpito maggiormente quello di Valerio Capasa sui Dialoghi con Leucò, e in particolare ciò che dice sul quinto dialogo, Il fiore. Non mi interessa discutere sull'impegno civile di Pavese, sul senso di colpa per non aver partecipato alla resistenza o sul suo rapporto con le donne. Mi interessa ciò che Capasa dice su questo dialogo, e cioè che qui, quando parla di Apollo e Giacinto, rivisitandone il mito in modo del tutto personale, Pavese parla di noi.
"La solitudine può essere paurosa, ma non ci può uccidere come uomini. Solamente gli altri (il prossimo, il compagno, le donne) lo possono. Di fronte a costoro soffriamo sempre, a fondo. Alla fine del giorno, spossati, scopriamo che con noi non c’è nessuno. Eppure tutta la nostra fatica aveva quest’unico scopo: di non lasciarci a mani vuote. Come possiamo accettare questo? Dobbiamo accettarlo. Che cosa sarebbe la fine del giorno, l’indomani e l’avvenire, se sparissero i simboli, se sparisse il mistero? Se la notte non fossimo soli? Saremmo più morti dei morti. Ignoreremmo che il prossimo, essendo per noi un mistero, attende da noi la percossa, attende di essere svegliato e tormentato, messo di fronte al suo dolore e al suo mistero.
Proviamo ad entrare nell’inaccettabile mistero della distanza tra gli uomini, negli incontri con gli altri che si rivelano impossibili, entusiasmanti e al tempo stesso traditori, proprio come l’ossimoro in cui consiste la vita: “Sei la vita e la morte”.
Il Dialogo V, Il fiore, allude a un fatto dolce e atroce a cui avrebbero assistito, dice Pavese, i leopardiani Eros e Thanatos. Eros dice: per fortuna i mortali la chiameranno una disgrazia. Si tratta della morte di un ragazzo, Jacinto. È primavera, e il ragazzo non la vedrà. C’è la Morte e c’è un fiore: non è la prima né l’ultima volta.
Dov’è passato un immortale, sempre spuntano di questi fiori. Le altre volte, almeno, la causa di questa morte era una fuga, c’era un pretesto, un’offesa. Così accadde per Dafne, Atteone. Jacinto invece non fu che un ragazzo. Visse i suoi giorni venerando il suo signore. Giocò con lui come gioca il fanciullo. Era scosso e stupito. Eros lo sa.
Qui viene evocata la storia di Apollo e Dafne. Dafne fugge, viene inseguita, riluttava al dio. Ma stavolta, perché questo “fidanzamento” tra Apollo e Jacinto è finito male, se i due giocavano, si amavano? Stanno giocando al lancio del disco. Perché questa disgrazia, il rimbalzo del disco lanciato da Apollo che va a finire sulla fronte di Jacinto? Di fronte a questa disgrazia Apollo, nel mito originale, aveva cercato di soccorrerlo, di farlo rialzare, ma per la prima volta un dio aveva sperimentato la sua impotenza.
Pavese però introduce una variante atroce: non è stata una disgrazia, a suo avviso. I mortali si dicono che fu una disgrazia. Ma il Radioso Apollo non è uso fallire i suoi colpi. Thanatos dice ad Eros di aver notato un dettaglio importante: ha visto il sorriso di Apollo. Thanatos ha visto il sorriso aggrottato con cui Apollo ha seguito il percorso del disco, lanciato verso il sole. Jacinto levò gli occhi e le mani e lo attese abbagliato. E il disco gli piombò sulla fronte. Perché questo, chiede Thanatos a Eros? Tu certo lo sai. Eros risponde: io non posso intenerirmi su un capriccio. Attenzione, quindi: non è stata una disgrazia, ma un capriccio.
Quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele. Il radioso ha voluto giocare. È disceso tra gli uomini, ha visto Jacinto. Lui ha visto lei (o lei ha visto lui): qui Pavese sta parlando di noi. Il Radioso ha visto Jacinto e per sei giorni, fin quando è durata quella storia, è vissuto in Amicle. Sei giorni che a Jacinto cambiarono il cuore e rinnovarono la terra. Poi, quando al Signore venne voglia di andarsene, Jacinto lo guardava smarrito. Allora il disco gli piombo tra gli occhi.
Qui tutto ruota attorno al verbo giocare. Apollo stava giocando. Giocare, in latino ludere. Per etimologia, chi si trova dentro un gioco è in - lusus. E quando capisci il gioco, quando ti disgusta, vai fuori dal gioco, sei de - luso.
Vai fuori dal gioco. Il problema dei rapporti non è che ad un certo punto finiscono: è che quando nascono su un capriccio, finiscono su un capriccio. Il gioco è problema fin dall’inizio, fin da quando Apollo ha visto Jacinto. Ne “La luna e i falò” Pavese lo dice: in America (ma ora anche qui è così) quando sei stufo di qualcosa cambi. Cambi fidanzato, amici, posto. Quella di Apollo, perciò, è stata una violenza volontaria. Non è stata una disgrazia. Lui sapeva benissimo dove sarebbe andato a finire quel disco lanciato. Giorgio Colli parla di violenza differita. Gli attributi con cui Apollo viene sempre raffigurato sono l’arco e la lira. Quando incontri Apollo, non sai mai se ti dedicherà una poesia o se ti sparerà una freccia.
Molto probabilmente, Apollo prima ti dedicherà una poesia e poi ti scaglierà una freccia.
Pavese sta guardando la fine di quei rapporti che sembravano una linea retta senza interruzioni.
“Il dio parlava sorridendo tranquillo, con una noncuranza che fa rabbrividire il cuore”. La parola “tranquillo” in questo dialogo è associata al sorriso e poi a un’altra parola, la noncuranza. Se io mi curo di te, piango per te. Se non mi curo di te, sorrido. Di cosa sta parlando Pavese? Lo capiamo benissimo. Non sta variando un mito classico per una preoccupazione da letterato, sta parlando del nostro mondo, dei nostri rapporti. “In Jacinto non fu che speranza, una trepida speranza di somigliarsi all’ospite. Ma il radioso non raccolse l’entusiasmo che brillava in quegli occhi: gli bastò suscitarlo. Lui scorgeva già allora in quei riccioli il bel fiore chiazzato che era la morte di Giacinto.” È la frase più terribile da accettare, perché non basta suscitare un entusiasmo, stupendo qualcuno, facendolo innamorare. Il problema è raccogliere quell’entusiasmo. Ed è il dolore, che tutti quelli che sono stati delusi da un entusiasmo conoscono. Pavese scriveva chiaramente, nel Mestiere di vivere, parlando di se: “Tu vali un capriccio, non una compromissione”. Oppure: “Da chi non è pronto non dico a sacrificarti il suo sangue, ma a legarsi con te per tutta la vita, a rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione, non dovresti accettare neanche una sigaretta.” Neanche un fiore. Perché tu, che mi entusiasmi oggi, ci sarai domani? Oppure ti sei solo incapricciato di me? Siamo sinceri: se ti comparisse davanti Cesare Pavese, e parlasse, e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso? Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera e chiacchierare?
A chi si può chiedere questa fedeltà? Pavese ha chiesto troppo. E del resto, non vale la pena chiedere le cose piccole, vale la pena solo chiedere troppo. Qualcuno sorridendo penserà che la vita è fatta così, che bisogna adeguarsi, che Pavese doveva mettersi l’anima in pace. “Giacinto ha vissuto sei giorni nell’ombra di una luce, non gli manco della gioia perfetta nemmeno la fine rapida e amara”. Non ha neanche sofferto molto. È finita improvvisamente, ed è giusto che sia così, no? È la mentalità dominante del nostro tempo. La gioia perfetta sarebbe quella: le cose sono belle finché durano. Poi, ne avremo un bel ricordo, di una bella esperienza... finita. “Che altro vorresti per lui, Thanatos?” Questa è la domanda. Che altro vorresti? “Che il radioso lo piangesse come noi.” “Tu chiedi troppo, Thanatos.”
Pavese, hai vinto il premio Strega, hai avuto successo, hai scritto dei libri: che altro vorresti? E tu che hai tutto, casa lavoro famiglia, che altro vorresti?
Mentre tutti giocano al ribasso, per fortuna Pavese ha chiesto troppo. Che altro vorrei per Pavese? Che qualcuno lo piangesse.
DA Tu chiedi troppo”. I Dialoghi con Leucò, Valerio Capasa, saggista e membro del Comitato didattico Diesse Firenze
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L'AUTORE Roberta
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Ciao Mauro, ti ringrazio per il commento, anche se non so sinceramente cosa rispondere. Posso solo dire che Pavese considerava i Dialoghi con Leucò un approdo, un punto d’arrivo. Nella prima fase le opere di Pavese riflettono la conoscenza profonda e la passione per la letteratura americana, soprattutto per quanto riguarda lo stile. I temi rimangono più o meno gli stessi: le dicotomie città-campagna, infanzia - età adulta, solitudine e incontro con l’altro, isolamento e partecipazione politica. Non credo ci sia alcun dettame del neorealismo: Pavese è neorealista nella Casa in collina, quando racconta, come tutti i neorealisti, la Resistenza, la guerra e la miseria di quegli anni. D'altra parte il Neorealismo è una corrente fondamentale per la letteratura e per il cinema italiano, non solo un documento di prima mano su un periodo storico tragico e fecondo allo stesso tempo, perché da esso è nata la Costituzione, ma anche dal punto di vista stilistico il cinema neorelista italiano è una delle più belle espressioni del Novecento.
Tornando a Pavese, pur essendo considerato un capostipite del Neorealismo la sua opera nel complesso sfugge a ogni tentativo di imbrigliarla in una corrente letteraria; la sua è sempre stata una voce personalissima e già in Paesi tuoi si mescolano una straordinaria abilità narrativa, uno stile cinematografico, modernissimo rispetto alla tradizione narrativa italiana (frutto sicuramente dell'influsso degli scrittori americani contemporanei), con il mito e i rimandi simbolici ai riti ancestrali del sangue, della fecondazione ecc. Semmai nel suo percorso di scrittore cambia il rapporto col mito. Nella presentazione alla prima edizione dei Dialoghi Pavese dice di sé: “Pavese si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano […]”. Insomma, abbandona l’approccio da studioso / antropologo e abbraccia il mito come parte di noi, memoria presente nella natura, ricordo antichissimo che riemerge e che ci accomuna tutti. Reinterpreta così i miti greci in chiave moderna, come dire che il mito, nato per esprimere il rapporto tra l’uomo, la natura e l’altro, è necessariamente allo stesso tempo eterno e mutevole.
Eh sì, è proprio così. E De Gregori lo celebra in Alice guarda i gatti: \\\\"E Cesare perduto nella pioggia/Sta aspettando da sei ore/Il suo amore ballerina/E rimane lì, a bagnarsi ancora un po’/E il tram di mezzanotte se ne va\\\\". Alla Pivano ha dedicato tre poesie bellissime, Mattino, Estate e Notturno, ora contenute in Lavorare stanca (Poesie scritte in appendice), nelle quali si percepisce l\\\\'affetto e la delicatezza che anche lei provava per lui: non lo prese in giro come fecero altre, ma amava un altro, l\\\\'architetto Ettore Sottsass, e lo sposò. La poesia Notturno la riporto perché è bellissima:
La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s'inquadra il tuo capo, che muove appena
e accompagna quel cielo. Sei come una nube
intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
la stranezza di un cielo che non è il tuo.
La collina di terra e di foglie chiude
con la massa nera il tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
tra le coste lontane. Sembri giocare
alla grande collina e al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo sfondo antico
e lo rendi piú puro.
Ma vivi altrove.
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
Le parole che dici non hanno riscontro
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
impigliata una notte fra i rami antichi.
Molto interessante per conoscere Pavese è anche il ritratto che ne fa Natalia Ginzburg in Lessico familiare, dove tra l\\\\'altro spiega anche le circostanze del suicidio: «Pavese si uccise un’estate che non c’era, a Torino, nessuno di noi. Aveva preparato e calcolato le circostanze che riguardavano la sua morte, come uno che prepara e predispone il corso d’una passeggiata o d’una serata. Non amava vi fosse, nelle passeggiate e nelle serate, nulla d’imprevisto o di casuale. […] L’imprevisto lo metteva a disagio. Non amava essere colto di sorpresa». Nel complesso però ci lascia il ricordo di un uomo che conosceva l\\\\'ironia, che aveva e sue manie, che amava la solitudine ma aveva bisogno degli altri. Grazie a te, Mauro!
In realtà nel dialogo Giacinto non ha il tempo di capire il gioco, perché Pavese dice che “quando al signore venne voglia di andarsene, Iacinto lo guardava smarrito. Allora il disco gli piombò tra gli occhi”. Istantaneo. Iacinto “è solo fiducia e stupore”. Questa è la sua colpa, non l’aver visto il sorriso del dio, ma l’esservisi affidato completamente. Nella sua lezione Capasa dice (riprendendo il testo del Dialogo) che Thanatos, non Giacinto, ha scorto il sorriso aggrottato di Apollo. Quando Apollo si stufa e fa per andarsene, Iacinto resta pietrificato, scioccato per qualcosa che non si aspettava, e nell’istante stesso il disco lo colpisce. Nel dialogo Pavese dice anche che Apollo non aveva rivelato la sua natura divina, anzi aveva finto di essere mortale, raccontato vicende comuni. La sorpresa di Iacinto è improvvisa, vedi il fulmine e ti ha già colpito. Però non è sbagliato il tuo ragionamento, che porta poi alle conclusioni di Montale in Spesso il male di vivere ho incontrato: non esiste alcun bene all’infuori del “prodigio” della “divina indifferenza“. L’indifferenza non è propria dell’uomo, ma di un essere superiore, statua, falco, nuvola. Vorresti essere così? Pavese non lo è, nelle antitesi di cui è piena la sua poesia si capisce che lui è sempre carne, sangue e terra. Montale è più freddo, distaccato, osserva e scrive. Ha successo con le donne. Pavese soffre troppo, ha fretta di possedere, vede continuamente ripetersi il dramma dell’abbandono, ha paura, ha bisogno degli altri ma cerca la solitudine. Comunque sia, è chiaro che in questo dialogo Pavese si identifica con Giacinto, il giovane che si fida e viene ferito a morte. Non dà soluzione: o nasci uomo, o nasci dio. Non c’è possibilità di mediazione tra uomini e dei, non si passa da uno stato all’altro. Gli dei sono immortali, per loro nulla finisce, mentre per gli uomini la sorte è segnata. L’unica cosa che Pavese chiede è che si pianga per chi è stato usato e ucciso, in senso letterale o metaforico che sia. Chiede che Apollo smetta almeno di sorridere e pianga per Giacinto.