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"VIRGOLETTE" Saggistica Saggistica
di Roberta
pubblicato il 2020-06-11 14:55:38
Seduta di fronte alla finestra della mia stanza, affacciata su una strada da qualche tempo deserta, vagando la mia mente si sofferma su un inconsueto dilemma: perché si scrivono poesie? Ma soprattutto, quando scriviamo poesie d’amore, per chi lo facciamo? Chi è il vero destinatario? È l’oggetto della poesia (la persona di cui si parla)? È il pubblico, una sorta di claque di cui abbiamo bisogno per nutrire il nostro ego? O siamo noi stessi, visto che, secondo alcune teorie psicologiche e letterarie, l’altro, la persona amata, non è che l’oggetto di un bisogno che si ridesta in alcuni momenti della vita, e che s’attacca dove trova, per cui la stessa persona per la quale dicevamo e credevamo di vivere e morire, dopo un certo lasso di tempo non è che un uomo pelato, un ragazzo appesantito e goffo, un muso lungo e storto?
Per farsi una domanda del genere, di poesie d’amore bisogna averne scritte almeno un po’, e non guasta frequentare o conoscere abbastanza bene qualcuno che abbia la stessa predisposizione. Perché di questo, poi, si tratta: non ci si impone di scrivere poesie, a un certo punto e in certi momenti ti vengono.
Ho scritto poesie d’amore a 19 anni, al liceo. Poi ho smesso fino a quando, a poco più di 25 anni, frustrata dalla schiavitù del lavoro d’ufficio, m’innamorai di un mio collega, unica via di scampo che la mia mente riuscì a trovare per sopravvivere a quella vita vuota e infelice. Ecco che allora, di nuovo, dopo quella che a quell’età sembra un'infinità di tempo, ma alla mia età attuale una manciata di anni tutti uguali, parole non cercate iniziarono a premere per uscire.
All’università provai perfino a scrivere dei sonetti; sempre, ovviamente, dopo una delusione amorosa: sembra che l’animo poetico si risvegli ogni volta che il desiderio viene frustrato. Ma non è solo quello, e lo spiegherò meglio dopo: un’altra grande fonte d’ispirazione sono gli amori platonici, o meglio le proiezioni dei nostri bisogni sulle persone più varie che ci capitano a tiro in certi momenti della nostra vita in cui siamo predisposti all’innamoramento.
A proposito di amori platonici, da giovane donna scrissi poesie per giovani uomini che non si sarebbero mai sognati di essere nei miei pensieri: se quelle poesie fossero finite per caso (ma in effetti era assolutamente impossibile, perché il quadernino su cui le scrivevo non si mosse mai dal cassetto del mio comodino) in mano al destinatario, sarei morta per la vergogna: da quel momento non avrei più avuto il coraggio di farmi vedere in giro. Per esempio ne scrissi alcune per un ragazzo che incontravo in treno per andare all’università e che frequentava il pub dove lavoravo nel fine settimana. Negli stessi anni ne scrissi per un tipo alto e bello (così mi pareva) che faceva l'obiettore di coscienza nella biblioteca dove lavoravo saltuariamente per mantenermi agli studi. In entrambi i casi si trattava di amicizie, si parlava del più e del meno, c'era stato qualche rossore da entrambe le parti, vedendosi in un’occasione inaspettata, ma nulla più: nessun appuntamento, scambio di numeri di telefono, tentativo d’incontrarsi da soli. D'altra parte, un rossore da parte loro nel vedermi bastava a suscitare un turbamento e romantiche fantasie, che mai provai a far realizzare. Ma avevo davanti una lunga vita, a quel tempo, e pensavo di potermi permettere di procrastinare. Se avessero letto quello poesie, entrambi mi avrebbero presa per pazza (magari ne sarebbero stati lusingati, ma a quel punto io sarei scappata a gambe levate per la vergogna e il mio amore sarebbe sfumato immediatamente, al solo pensiero della figuraccia che avevo fatto). Eppure credo sia proprio quella la condizione ideale per scrivere poesie d’amore: quando si vivono quelle infatuazioni che nascono come piccoli fuochi solo dentro la tua testa, che si nutrono di piccolissime cose, come uno sguardo appena più lungo del normale, un rossore improvviso comparso sulle guance dell’altro che non si aspettava di vederti, o comunque da quei sogni ad occhi aperti che si fanno da soli nella propria cameretta, pensando a un viaggio in treno seduti vicini, a un momento in cui lui sembra essersi addormentato e tu vorresti appoggiare la testa sulla sua spalla ma non lo fai e rigiri quel pensiero nella tua mente per giorni.
Dopo i 30 ne scrissi alcune anche per dei giovani uomini con cui una qualche relazione c’era stata, ma anche in quel caso mai e poi mai avrei voluto che quelle poesie cadessero in mano ai rispettivi destinatari. Non li riguardavano. Riguardavano me, i miei sentimenti, la mia immaginazione, infatuazione, esaltazione. A volte erano anche esercizi di stile: durante l’università (ma devo averlo già detto) avevo scritto perfino qualche sonetto.
Ma allora, se per me funziona così, anche gli altri scrivono solo per sé? Per chi si scrivono le poesie d’amore?
A questo punto entra in gioco una questione di ordine morale: è lecito pubblicarle se il destinatario potrebbe riconoscervisi? Se la lettura di quelle poesie potrebbe provocare nell’altro una reazione cui non siamo pronti a corrispondere?
Ecco dunque che sorge un dilemma: se a quel tempo ci fosse stato internet, le avrei pubblicate? E se sì, l'avrei fatto, sapendo di correre il rischio che i destinatari le leggessero e - almeno in qualche caso - vi si riconoscessero? Avrei addirittura avuto il coraggio di farlo sapendo che loro le avrebbero lette? E se così fosse stato, quelle poesie sarebbero state ancora solo per me? E se loro fossero venuti a cercarmi dicendomi di averle lette, con sguardi carichi d’amore e di attesa? Non sarei forse scappata a gambe levate, comprendendo che non era di Tizio o di Caio che stavo parlando, ma di me?
E però, se spostiamo il punto di vista: se c’è un destinatario che legge, e chi scrive ne è consapevole, allora la poesia non è più solo di chi la scrive. E se c’è qualcuno che vi si riconosce, perché magari quella poesia è stata scritta dopo un litigio, o dopo una riappacificazione, o ancora dopo una qualsiasi cosa che l’altro abbia fatto nel corso di quella relazione, o anche dopo che essa è finita, lasciando però degli strascichi, delle questioni irrisolte, allora quella poesia coinvolge anche quel qualcuno, tirandolo in ballo cambia qualcosa nella sua vita, provoca in lui delle reazioni: si potrebbe dire che è una sorta di violenza, un'irruzione nella vita altrui che provoca delle conseguenze.
Ancor peggio vanno le cose quando sappiamo che la persona con cui abbiamo iniziato una relazione scrive poesie e sappiamo anche dove le pubblica, perché è lei, quella persona, che ci ha portato lì, che ci ha fatto conoscere quel luogo: qui non è più concesso barare, a meno che non si abbia dell’altro una così bassa opinione da credere che possa non capire quel particolare che riguarda proprio qualcosa che ci si è detti, un fatterello che a un estraneo potrebbe anche sembrare di minima importanza, ma non lo è per chi è coinvolto sentimentalmente, oppure una provocazione, un messaggio, un’immagine che rimanda a lui.
Insomma, nel primo caso, quando il destinatario (o l’oggetto) è totalmente ignaro, la poesia è qualcosa di leggero, evanescente, nata dal profondo di noi stessi ma evaporata poi nell’aria, libera, inoffensiva, addirittura piacevole. Nel secondo caso, bisogna pensarci molto bene prima di rendere pubblico qualcosa che coinvolge molto intimamente un’altra persona, che che ci ama o che ci ha amato, e che leggendo proverà un’emozione, positiva o negativa che sia, e subirà inevitabilmente un cambiamento d’umore, e se questo succederà abbastanza spesso, probabilmente un cambiamento nella propria vita.
Quale parte ha la persona che ha ispirato una poesia d’amore nella diffusione della poesia stessa? Come vive quella persona l’esibizione di un sentimento da lei stessa provocato? Il fatto che quelle parole da lei ispirate (nel bene e nel male) vadano in pasto a cani e porci? Dove sta il confine tra la libertà dell’artista e la vita spirituale, affettiva, privata della persona amata?
Mi fermo, non mi aspetto nulla, ma forse a questo aspetto qualcuno ci dovrebbe pensare.
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L'AUTORE Roberta
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Mah... devo premettere che poesie d\'amore non ne ho mai scritte (o se l\'ho fatto non me ne sono accorto), nè ne ho ricevute (o, se è successo, non me ne sono accorto) - e devo premetterlo perchè è saggio parlare di ciò che si conosce. Ciò premesso, credo che, se nella poesia d\'amore prevale l\'aspetto relazionale, per cui la poesia ha senso solo se riferita a un determinato soggetto, allora è meglio il riserbo. Se invece può in qualche modo assurgere a massima universale, anche se magari di un aspetto particolarissimo o rarissimo di questo sentimento, allora il riserbo può essere meno stringente. Penso quindi che le poesie di Petrarca, Catullo ecc abbiano un valore che esula dalle caratteristiche, probabilmente neppure reali, di Lesbia o Laura. Anzi, hanno valore, magari, proprio perchè ne prescindono. Con riferimento poi ad internet (oltretutto in tempi in cui si è dovuto creare il reato di \"pornovendetta\") penso, ma è personalissimo parere, che nella misura in cui si avvicinano a una forma di corrispondenza (ancorchè di amorosi sensi) non le si possa pubblicare senza il consenso del destinatario se costui può o potrebbe essere riconosciuto. A ritenere diversamente, si perverrebbe alla conclusione che l\'amore può essere gestito solo da una delle due parti e così, per comune esperienza, non è - nè è bene che sia.(la sua natura è infatti eminentemente, sostanzialmente relazionale) . Si verificherebbe infatti una lesione di un diritto fondamentale della persona, quello alla propria identità, ai propri sentimenti e alla riservatezza. Determinare in concreto la riconoscibilità di un soggetto è, ovviamente, molto più difficile che in astratto. E allora, posso, camuffato l\'oggetto del mio amore in Lesbia, Beatrice, Laura, Fiammetta o chicchessia, quindi resa impossibile l\'identificazione, rendere pubblico il mio sentimento? Mah... senza indagare sul perchè uno lo faccia, penso di sì. Lo si è sempre fatto e proprio in questi termini, scrivendo di Lesbia, Laura, Beatrice, Fiammetta eccetera. Magari - e quindi senza entrare nel merito del valore letterario \"amo Maria\" sul muro. Col rischio che qualcun altro aggiunga, sotto: \"Però Maria ama me\".
Adulterio! Che paura! La lettera scarlatta, la sacra rota, il cardinal Tettamanzi e suor Luigia dell’asilo!
Scherzi a parte, ad averci pensato, ce ne sarebbe per una tesi di laurea. Temo però che la partita tra la poesia d’amore e la deandreiana “pubblica moglie” sia persa in partenza. Dalle origini della letteratura in volgare, i trovatori provenzali usavano il senhal perché scrivevano per donne sposate. Beatrice sembra sia morta di parto (era quindi sposata e non con Dante) mentre alla moglie Gemma Donati il sommo poeta a quanto pare non dedicò una riga. Lungi da me dal giudicare, ma amore, idealizzazione e matrimonio non hanno nulla in comune e sia Dante che Beatrice si sposarono a quanto pare per ragioni che con l'amore avevano poco a che fare. Petrarca: la condizione di chierico non si concilia con l’amor carnale, e infatti il senso di colpa lo perseguita tanto che il sonetto proemiale del Canzoniere parla di “giovanile errore”. Ariosto si sposa in tarda età dopo una relazione clandestina durata tutta la vita, che gli fa scrivere nel proemio del Furioso: “Se da colei che tal quasi m’ha fatto,/che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,/me ne sarà però tanto concesso,/che mi basti a finir quanto ho promesso.”. Faccio un salto fino a Foscolo, collezionista di donne sposate più vecchie di lui. Leopardi s’innamora di Fanny Targioni Tozzetti, sposata con figli, e le dedica il ciclo di Aspasia. Pavese, amante infelice, ama e dedica poesie, tra le altre, alla Pivano, che però sposa l’architetto Ettore Sottsass. Montale scrive poesie per Irma Brandeis (Clizia) e Maria Luisa Spaziani (Volpe), rispettivamente Beatrice e antibeatrice, ma sposa la povera Drusilla Tanzi, che lo ha sempre protetto, aiutato e mantenuto, solo in tarda età, e le dedica poesie post mortem, chiamandola “caro piccolo insetto” (gulp). E che dire della poesia di Umberto Saba A mia moglie, paragonata a una capra, a una giovenca e a una cagna? Grazie caro, giovenca e cagna sarà tua madre, io chiedo il divorzio! Urca, per poco dimenticavo Catullo e Lesbia! Insomma, la poesia sta al matrimonio come i cavoli a merenda.