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"PUNTO E A CAPO" Racconto Storico / Avventura / Western / Spionaggio
di Vecchio Mara
pubblicato il 2020-02-12 22:30:01
A letto con il führer ( racconto vietato ai minori di anni 18)
L’idrovolante compì un’ampia virata per allinearsi allo specchio d’acqua poi iniziò a planare, i pattini sfiorarono il pelo dell’acqua all’unisono e proseguirono aprendola ai lati.
“Perfetto”, ebbe a pensare l’uomo vestito di tutto punto che attendeva sul molo.
Attese lì, con le braccia incrociate sul petto, che l’idrovolante attraccasse; poi, quando il pilota spense il motore, si avvicinò.
Il pilota, dopo aver tirato gli occhiali sopra il berretto da aviatore, si mise a compilare la scheda di collaudo. Quando ebbe finito, alzando lo sguardo dal foglio notò la presenza dell’uomo sul molo.
«Alighiero! Che bella sorpresa!» esclamò stupito aprendo lo sportello.
«Ciao, Bruno, vedo che ti diverte ancora volare», replicò Alighiero, mentre l’altro usciva dalla carlinga.
«Perché, invece tu?» fece Bruno quando fu di fronte a lui.
«Non molto spesso, purtroppo», rispose intristito.
Bruno gli pizzicò il bavero della giacca poi, salendo con la nocca dell’indice, diede un colpetto alla tesa del Borsalino, nero, come l’abito. «Capisco. E’ ormai più di un anno che non ti si vede da queste parti; da quando sei diventato un pezzo grosso, uno da uffici ministeriali.»
«Il mese scorso ho volato, fino in Libia.»
«Con Italo?»
Alighiero annuì inorgoglito. «Gli ho fatto da secondo… sembrava di essere tornati ai tempi delle trasvolate atlantiche.»
Gli occhi di Bruno s’illuminarono, guardò il cielo, sospirò. «Cosa non darei per tornare indietro.»
Si accorse che il meccanico gli stava porgendo la tavoletta di legno con sopra il foglio di collaudo che aveva compilato poc’anzi. Allora trasse la penna dal taschino della tuta e lo firmò. «Portalo pure in ufficio!», comandò poi.
Il meccanico annuì e si avviò.
«Ma dimmi: non sarai venuto da Roma soltanto per assistere al collaudo di un idrovolante?»
«Mi manda lui.»
«E qui?» domandò Bruno, allungando lo sguardo sin dentro l’automobile nera che attendeva all’inizio del molo.
«No. Mi ha incaricato di metterti al corrente di tutto. E avrei anche una certa urgenza: entro stasera devo essere a Roma a riferire.»
«I telefoni non funzionano?» domandò ironicamente Bruno.
«Certe faccende, conviene trattarle a voce, lontano da orecchie indiscrete», rispose in tono grave l’altro.
«Dal tono mi par di capire che si tratta di una faccenda molto seria.»
«Lo è», si limitò a dire Alighiero.
«Una faccenda così seria, da non poterla affidare a nessuno, nemmeno a quelli dell’OVRA», gli sfuggi un moto di riso «… ma a un pilota collaudatore, sì.» Fissò nello sguardo Alighiero. «Di cosa si tratta, di collaudare in segreto un nuovo tipo di aereo o roba del genere?»
«Niente aerei, e niente voli.»
Bruno allargò le braccia. «Peccato. Io, purtroppo, non so fare altro. Temo che abbia fatto un viaggio a vuoto», disse in tono dispiaciuto.
«Io, invece, sono sicuro che sei la persona giusta. L’unico in grado di trovare e convincere qualcuno a rivelare quello che sa», replicò con fare sornione Alighiero.
«Uhm… m’incuriosisce assai questo tuo modo criptico d’esprimerti. Puoi essere più chiaro?»
Alighiero si guardò all’intorno: c’erano un paio di uomini in tuta da meccanico che trafficavano attorno al motore dell’idrovolante. «Non qui, entriamo in macchina», rispose indicandola.
Percorsero il molo in silenzio e, dopo che si furono accomodati sul sedile posteriore della grossa berlina, Alighiero gli spiegò l’urticante faccenda e cosa si aspettassero da lui.
«Dunque sarei stato scelto perché eravamo cresciuti insieme, e Rita si confidava con me», tirò le somme alla fine Bruno.
«Anche, ma non solo per quello.»
«Non solo per quello», ripeté Bruno aggrottando le sopracciglia. «E quale altro motivo ci sarebbe?»
«Se non rammento male, non è che ti stesse troppo simpatico il führer.»
«Di’ pure che non lo posso vedere, quel pazzo incosciente che non vede l’ora di scatenare un’altra grande guerra!» confermò con fare schifato Bruno.
«Se le cose stanno così, non ti rimane che darci una mano. Finora, bene o male, siamo riusciti ad evitare che le sue pretese territoriali scatenassero un nuovo conflitto. Ma Francia e Inghilterra non porgeranno l’altra guancia all’infinito; e alla prossima provocazione… chissà come andrà a finire. Rita potrebbe rivelarsi il grimaldello per convincere il duce a non allearsi con l’imbianchino schizofrenico.»
Bruno ci pensò su: non lo convinceva il fatto che una prostituta d’alto bordo potesse aver appreso “segreti di letto” capaci di sovvertire la politica estera dell’Italia. Ma se era fuggita da Roma in fretta e furia, una ragione ci doveva pur essere; e poi era anche un po’ colpa sua, se Rita era caduta così in basso. «Ad essere sincero, non è che la storia mi convinca fino in fondo. Ci sono ancora molti punti poco chiari; ma ora la priorità è mettere al sicuro Rita. Vi aiuterò. L’aiuterò. E’ una cara amica, glielo devo!» concluse.
Dove potrebbe essersi nascosta? Si era chiesto Bruno prima di addormentarsi; e il mattino seguente, quasi certo di averlo capito, si era messo alla guida della Fiat 508C nera per andarla a cercare. Era quasi sicuro che Rita si fosse rifugiata dalla madre, nel piccolo borgo in mezzo alle colline dove avevano condiviso la prima parte della vita: dai primi giochi alla prima cotta. “Gli anni migliori”, ebbe a pensare mentre il motore arrancava su pendenze considerevoli e lui, osservando con sguardo malinconico le verdi colline davanti a sé, rammentava il tempo della spensieratezza.
Aveva due anni, Bruno, quando Rita era venuta alla luce nella casa accanto alla sua. E da quando lui ne aveva otto erano diventati amici inseparabili, avevano condiviso la prima cotta e molto altro; fino a quando la scuola li aveva divisi. Bruno, che era diventato un eroe, una leggenda per i compaesani dopo la trasvolata atlantica del 1933 dei venticinque idrovolanti al comando di Italo Balbo; nel 1934 era entrato a far parte della schiera dei collaboratori dell’appena nominato governatore della Libia. Nel frattempo Rita aveva concluso gli studi. E quando la madre aveva chiesto a Bruno, visto che Rita parlava correttamente l’inglese, il tedesco e il francese, se poteva trovarle un impiego presso qualche ministero; lui si era speso per accontentare l’amica del cuore.
«Maledetta contessa!» sbottò picchiando un pugno sul volante, rammentando come Apollonia era riuscita a circuire Rita.
Apollonia contessa del Fringuello e della Cinciallegra, e qualche altro chilometrico titolo fasullo che per carità di patria, e di spazio, non citerò; era una donna dal fascino indiscutibile. Il suo salotto era frequentato da gerarchi e alti funzionari in cerca di qualcosa di molto stuzzicante: ragazze di bella presenza a caccia di facili guadagni. Per farla breve: un bordello per ricchi e potenti!
Il comodato d’uso di un appartamento in centro, dove ricevere i danarosi clienti, e la lauta parcella per le sue prestazioni professionali, dove la conoscenza delle lingue poteva anche tornare utile ma non era certo indispensabile, avevano convinto Rita a buttare all’aria anni di studio per dedicarsi al più remunerativo, e a volte anche piacevole, ruolo di accompagnatrice.
Quando Bruno lo era venuto a sapere, era andato su tutte le furie. L’aveva affrontata a muso duro, chiedendole conto delle sue scelte; ma lei non aveva voluto sentire ragioni: non sarebbe tornata dietro una scrivania, neanche se l’avesse pregata in ginocchio!
Bruno era disperato, si sentiva in colpa, il suo aiuto era servito solo a rovinarle la vita. Aveva lasciato l’appartamento di Rita senza nemmeno salutarla, e maledicendo sé stesso aveva giurato che non sarebbe restato un’ora di più nella città eterna. Il giorno dopo si era recato nell’ufficio romano del governatore della Libia e gli aveva chiesto di sollevarlo dal suo incarico. Questi aveva provato a fargli cambiare idea, ma di fronte alla risolutezza di Bruno, che voleva tornare a tutti i costi vicino a casa, lo aveva promosso capo collaudatore di idrovolanti, di stanza all’Idroscalo di Milano.
«Bruno?!» esclamò sorpresa la madre di Rita, dopo aver aperto la porta quel tanto bastante per vedere chi aveva bussato. «E’ da un po’ che non ti si vede in paese.»
«Troppi impegni, Ernestina», rispose con un sospiro. Volse lo sguardo all’intorno. «Se potessi, ci resterei, tra queste colline.»
«Dai, entra in casa», lo invitò la donna spalancando la porta. «Cosa ti posso offrire, un caffè?» domandò quando furono dentro.
«Niente, grazie lo stesso.»
Ernestina indicò il divano. «Almeno accomodati.»
«Vado di fretta, Ernestina.»
La donna sospirò scuotendo il capo. «Dunque hanno incaricato te. Ma hanno fatto male i conti. Quello che ho detto agli altri due, vale anche per te: non lo so dov’è Rita.»
«Non lo sai, o non me lo vuoi dire?» domandò sornione, alzando un sopracciglio.
«Che differenza fa?», rispose sorridendo amara. «Comunque, no, non lo so. E’ stata qui tre giorni fa, mi ha spiegato che era finita in un grosso guaio, che sarebbero venuti a cercarla e che per questo doveva andarsene in fretta. Ci siamo abbracciate, mi ha rassicurata dicendomi di non preoccuparmi che tutto si sistemerà, e poi…» sospirò, «e poi se n’è andata. Ed io sono qui che prego Dio perché non le capiti niente», concluse con voce commossa.
«Non ti ha detto dove sarebbe andata?»
Ernestina gli dedicò uno sguardo torvo. «Dimmi la verità, Bruno: perché lo vuoi sapere? Per consegnarla a chi?»
Bruno le prese la mano. «Ti sbagli, Ernestina, io non sto dalla parte di quelli che sono venuti a cercarla. Io la voglio aiutare.»
Il tono accorato parve convincerla; lo sguardo si rilassò: ora esprimeva solo preoccupazione. «Ma cosa ha fatto Rita? A chi ha pestato i calli? Lei non me lo ha saputo o voluto dire. Se sei qui, tu lo devi sapere.»
«Non te lo posso dire, mi spiace, Ernestina. Ribadisco che io la posso aiutare, ma se tu non sai dov’è… la faccenda si complica.»
La donna parve sul punto di dire qualcosa, poi scrollò il capo. «No! Non lo so!»
«Devi fidarti di me, Ernestina. Lo sai che Rita è come una sorella. Sono stato io a farla assumere come interprete al ministero, ricordi?»
«Vuoi che non lo sappia; sono stata io a chiedertelo…», scosse il capo. «E’ anche colpa mia se si è cacciata nei guai: avrei fatto meglio a non chiederti niente!»
«Non fartene una colpa. Se non lo avessi fatto tu, sono sicuro che me lo avrebbe chiesto lei, di aiutarla.»
Ernestina annuì. «E’ vero, me lo aveva anche detto che se non trovavo il coraggio di farlo, ci avrebbe pensato lei», confermò singhiozzando.
Bruno la strinse a sé. «Non piangere, Ernestina. Non le succederà niente. Te lo giuro sul mio onore: la troverò e te la riporterò.»
«Oh, Bruno, quanto vorrei crederti. Ma le parole servono a poco. Mia figlia sta scappando da qualcosa, da qualcuno, e io non so se la rivedrò», singhiozzava la piccola e minuta Ernestina, con la testa canuta appoggiata sul petto del prestante Bruno.
«Non fare così. La ritroverò! La ritroveremo!» provò a rassicurarla in tono perentorio accarezzandole il capo.
«Grazie, Bruno», disse con un sospiro. Staccò la testa dal petto di lui, trasse un fazzoletto dalla tasca del grembiule e si asciugò le lacrime.
«Non puoi dirmi proprio nulla? Che ne so: una frase, un qualcosa di strano che ti è rimasto impresso», insistette Bruno quando si fu ripresa.
Ernestina ci pensò su. «Quello che posso dirti, è che ha riempito lo zaino di provviste: pane, formaggi, salumi e una borraccia d’acqua. Poi mi ha abbracciata, mi ha rassicurata per l’ennesima volta; ha preso su e se n’è andata.»
«Com’è arrivata qui?»
«Con la corriera.»
«E se n’è andata a piedi», disse fra sé, mentre con un rapido calcolo mentale realizzava che la corriera passava ogni sette giorni. «Che scarpe calzava?» domandò poi.
«Degli scarponcini.»
La risposta parve soddisfarlo. «Che strada ha preso? E’ andata in su o in giù?» chiese ancora.
Ernestina fece mente locale. «L’ho accompagnata fin sulla strada. Poi lei è andata a destra, in su. Perché me lo chiedi?»
«Per capire come muovermi», rispose sopra pensiero. “Ora so dove trovarti. Come ho fatto a non pensarci”, rifletteva nel mentre.
«E come ti muoverai?» lo incalzò Ernestina.
«Nella maniera giusta. Ora è meglio che vada.»
«Quando mi farai sapere qualcosa?»
«Presto, Ernestina, molto presto!» rispose mentre apriva la porta.
«Grazie, Bruno, per tutto quello che stai facendo per noi.»
«Non mi ringraziare. Quello che sto facendo, non ripaga che in minima parte ciò che hai fatto per mia madre quando si è ammalata, assistendola fine alla fine. Io ero lontano, e tu, l’hai accudita amorevolmente, come una sorella. Siamo come una solo famiglia, Ernestina; se non ci si aiuta fra noi», concluse Bruno salendo in macchina.
Ernestina lo salutò agitando la mano e rimase a guardare l’automobile che si allontanava, prendendo la strada in salita che, pochi giorni prima, Rita aveva percorso a piedi con lo zaino carico di provviste in spalla.
Bruno fermò l’automobile appena fuori dal paese. “E’ salita per di qua”, realizzò buttando l’occhio sul sentiero alla sua destra che si addentrava in un bosco di betulle. Sorrise e commentò: «Praticamente, si è nascosta appena dietro casa». Inserì la prima marcia e proseguì lungo la strada asfaltata.
Percorse un paio di chilometri in salita, parcheggiò l’automobile in uno spiazzo sterrato al lato della carreggiata, scese e s’incamminò lungo un sentiero che andava a perdersi nel bosco. Il sentiero, dopo cinquecento metri quasi in piano, incrociava quello in ripida pendenza che saliva dal paese. Bruno si arrestò, guardò prima in giù poi in su. «E’ là dentro!» affermò, e s’immise nel sentiero in salita.
«Rita! Rita! Sono Bruno, vieni fuori», chiamava girando attorno al vecchio casolare colonizzato dall’edera. «Rita! Lo so che sei lì. Vieni fuori!» chiamò ancora arrestandosi davanti alla porta divelta. «Ho parlato con tua madre. Sono qui per aiutarti. Ti prego, vieni fuori.» Attese qualche secondo. Poi si affacciò alla porta, guardò in alto. «Rita, dove sei? Le travi sono marce, il soffitto ti potrebbe cadere in testa. Avanti, esci, dobbiamo parlare!»
Udì il soffitto scricchiolare e vide polvere e terra cadere dalle fessure dell’impiantito. “E’ disopra”, pensò. «Fai piano, qui sta venendo giù di tutto», si raccomandò.
«Ciao, Bruno», lo salutò con un filo di voce dall’alto della scala.
«Ciao, Rita. Stai attenta, i gradini sono consunti dall’umidità», ricambiò, avvicinandosi alla scala di legno.
Rita appoggiò le mani alla parete e iniziò a scendere con circospezione, mettendo delicatamente un piede dopo l’altro sui gradini scricchiolanti raggiunse il piano terra e si gettò tra le braccia di Bruno. «Ho paura, Bruno. Se mi prendono mi ammazzano. Ti prego, aiutami», singhiozzava.
«Tranquilla. Devi stare calma, Sono qui, non ti lascerò sola, nessuno ti farà del male», provò a tranquillizzarla con voce pacata mentre la accarezzava. «Ora usciamo da qui, prima che ci crolli il soffitto in testa.»
La fece accomodare su un tronco schiantato, si sedette accanto e, abbracciandola, attese in silenzio che si riprendesse.
«Ti ho deluso?» domandò con un filo di voce Rita.
«Hai deluso te stessa, le tue aspirazioni.»
Rita ci pensò su. «Ho deluso tutti. E’ inutile girarci attorno. Se ho trovato un lavoro a Roma, è stato grazie a te. Ed io, come ti ho ricambiato? Facendomi abbindolare da quella nobile decaduta.»
«Apollonia.»
«Già, Apollonia», confermò con un sospiro Rita.
«Lei ci ha messo molto del suo, poi, l’atmosfera decadente della città eterna ha fatto il resto.»
Rita staccò la testa dalla spalla di Bruno. «Parli come un avvocato che per alleggerire la posizione della sua cliente, prova a dimostrare che c’è stato un concorso di colpa.»
Bruno sorrise. «Non sto difendendo Apollonia»
«A no? E allora sii più chiaro!» lo incalzò torva.
Bruno sospirò, guardò lontano. «Roma è una vecchia puttana, che specchiandosi nelle vestigia di un glorioso passato, ti chiede un obolo molto salato per stringerti tra le sue cosce. Avrei dovuto metterti in guardia. Non me lo perdonerò mai! Sai perché è stato facile trovarti?» Rita fece cenno di no; Bruno indicò il casolare. «Ci venivamo a nascondere da bambini, lì dentro. Questo posto, queste colline sono l’unico luogo dove siamo stati veramente felici. Roma è un guazzabuglio. Non sono mai riuscito ad ambientarmi. Non sai quante volte sono stato sul punto di piantare tutto e tornarmene qui, a respirare aria pura. Ma tutte le volte c’era sempre qualcuno che mi convinceva a rimanere; perché ero utile lì, mi diceva. Ma quando ho saputo di te… non ce l’ho più fatta; mi sono impuntato e sono riuscito a farmi trasferire.»
«Per colpa mia, hai rinunciato a una brillante carriera», tirò le somme Rita con fare dispiaciuto.
«Colpa? Quale colpa? Caso mai, merito. La tua, sfortunata parabola, mi ha aperto definitivamente gli occhi.»
«La sfortuna non c’entra. Ero consapevole, lo sapevo benissimo cosa comportasse il ruolo di accompagnatrice. E quando il cliente se ne andava, non è che mi strappassi le vesti e mi mettessi a piangere per la vergogna. Tutt’altro! Ridevo. Sì, ridevo mentre contavo il denaro che da interprete avrei guadagnato in un mese», raccontò in tono amaro, senza farsi sconti. «C’è voluto il rapporto bestiale! Schifoso! Ripugnante con quella specie di bestia! Per farmi comprendere quanto male mi stessi facendo!» concluse con voce vibrante di astio.
«Come ci sei finita nel letto di Hitler?» le chiese a bruciapelo Bruno, prendendo la palla al balzo.
Rita si alzò, fece un passo in avanti. «Quello non è un uomo… non saprei neanche come definirlo… provo ribrezzo solo a pensarci», rispose guardando il bosco.
«Se non te la senti, lascia stare», ribatté pacato, alzandosi a sua volta.
Rita si volse. «Ma tu sei venuto per sapere com’è andata.»
«E’ vero», ammise Bruno abbassando lo sguardo.
«Dunque, chi ti ha mandato vuole sapere cosa è successo con quel porco schifoso! Perché?»
Bruno era indeciso sul da farsi: rivelare ora qual’era la sua missione, o tergiversare per capire se quello che gli avrebbe raccontato Rita sarebbe risultato utile alla causa. Alla fine si decise. «Perché quello che è accaduto quella notte, potrebbe tornare utile a qualcuno molto in alto, per convincere il duce a non allearsi con i tedeschi.»
«Addirittura!» esclamò incredula sgranando gli occhi. «Può la parola di una puttana, mutare il corso della storia?» si chiese. Scosse il capo e si rispose. «Non credo! Ma se c’è rimasto un brandello d’umanità… chissà!» Strinse le mani di Bruno. «Quello che ho da dire, potrebbe farti molto male. Potresti anche odiarmi, alla fine.»
«Non potrò mai odiarti, Rita!» affermò sicuro, guardandola negli occhi. «Saprò sopportare il male, non ti devi preoccupare per me. Ma se terrai tutto dentro, farai del male solo a te stessa. Di qualsiasi cosa si tratti, se è così terribile come dici; non ce la portai mai fare da sola.»
Rita annuì, tornò a sedersi sul tronco, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e, stringendo la testa fra le mani, esordì dicendo: «Quel pomeriggio stavo attendendo un banchiere. Quando udì suonare il campanello, misi su un largo sorriso di circostanza e andai ad aprire. Grande fu la sorpresa nel trovarmi davanti Apollonia. Dopo che l’ebbi fatta accomodare in salotto, mi spiegò che aveva telefonato al banchiere dicendo che non potevo riceverlo perché ero a letto con la febbre. E quando gli chiesi perché lo avesse fatto; mi rispose che aveva organizzato un incontro molto più gratificante…»
«Permettimi una domanda», saltò su Bruno interrompendola. Si sedette accanto. «Apollonia gestisce un buon numero di ragazze, possibile che non ce ne fosse una libera? E perché proprio te? C’era qualche motivo particolare?»
«Le domande sono tre», fece Rita, accennando un sorriso. «Se rispondo: Il mio aspetto, dovrebbe bastare.»
«Il tuo aspetto?»
«Beh, ad essere sincera, anche il fatto che parlassi correttamente il tedesco ha avuto un certo peso! Apollonia mi spiegò che, oltre alla lingua, la prescelta doveva essere alta, di carnagione chiara, bionda e con gli occhi azzurri. Insomma: doveva essere l’esatto opposto del modello mediterraneo», ed effettivamente, la statuaria Rita, poteva benissimo essere scambiata per una ragazza del nord Europa.
Rita proseguì il suo racconto dicendo che quando Apollonia le aveva finalmente svelato con chi avrebbe dovuto trascorrere la notte, quasi gli prese un colpo. Non gli era mai capitato un personaggio di tale levatura. E confessò pure di trovarlo affascinante; così, inconsapevole a cosa sarebbe andata incontro, subito dopo si preparò per rendersi il più possibile appetibile.
«Scusa un momento,» fece Bruno, interrompendola nuovamente, «Considerando che Hitler e suoi più stretti collaboratori non alloggiavano in hotel, ma nel palazzo del Quirinale; non so se mi spiego: non c’è mica il portiere da quelle parti, ma un’intera guarnigione armata fino ai denti. Tu, come hai fatto ad entrare?»
«Un funzionario del ministero degli esteri è venuto a prendermi con un’auto e un ordine di servizio da presentare alla porta carraia.»
«Cosa c’era scritto sull’ordine di servizio?»
«Che Hitler aveva richiesto urgentemente un’interprete.»
«E i militari di servizio alla porta carraia ci hanno creduto?»
«Boh!» fece lei stringendosi nelle spalle. «Quando l’ufficiale di picchetto guardò dentro la macchina, mi era parso di notare un non so che di malizioso. Ma se anche avesse mangiato la foglia, non lo diede troppo a vedere, visto che subito dopo s’irrigidì e ordinò in tono perentorio all’autista di proseguire.»
«Chi ti ha presentato a Hitler, il funzionario del ministero?»
«No. C’era un ometto piccolo, con il volto affilato che ci attendeva davanti alla porta dell’appartamento di Hitler… devo ammettere che fu molto galante nel presentarsi…»
«Il suo nome? Come si chiamava?» la interruppe Bruno.
«Joseph… Joseph Goebbels.»
«E’ il ministro della propaganda», la informò Bruno.
«Beh, in quanto a propaganda, ci sapeva davvero fare, il bastardo», ringhiò Rita.
«Ma se hai appena detto che è stato galante», le rammentò sconcertato.
«Sì, nel presentarsi e poi nell’incensare il suo capo. Ma poi, alla fine…»
«Ma poi?»
«Mi accompagnò nel salotto. Hitler era di spalle, davanti alla finestra e guardava fuori. Quando si volse, rimasi pietrificata: i suoi occhi azzurri, magnetici, inquietanti, parevano penetrarmi. Dopo essersi presentato, anch’esso con modi galanti, congedò Goebbels. Restammo soli. Mi offrì dei pasticcini e del vino bianco. Poi iniziò a parlare in tono pacato, spiegando la sua visione del mondo… ci diede dentro per una decina di minuti in un crescendo così partecipato, che alla fine il tono si fece gutturale. Mentre parlava camminava, gesticolava, sudava. Io lo ascoltavo allibita… no, non allibita, come avvolta in una bolla, mi sentivo strana… non potevano essere soltanto il tono e le parole a farmi sentire come sospesa nel vuoto… doveva aver messo qualche sostanza nei dolci o nel vino. Fatto sta che a un certo punto ho iniziato a percepire la sua voce come un’eco lontana. Domandandomi quale fosse lo scopo di quel comportamento logorroico, ho persino pensato che stesse provando il discorso che avrebbe fatto all’indomani dal palco e che alla fine mi avrebbe chiesto un parere. E invece no. Improvvisamente si tacque, si sedette accanto, mi prese la mano, la baciò e mi chiese se mi sentivo pronta. Al che mi venne spontaneo chiedergli se lui lo era. Mi disse che era eccitatissimo e non vedeva l’ora. E lì compresi che tutto quel verboso agitarsi era funzionale all’atto sessuale.» Improvvisamente, come spinta da una molla balzò in piedi. «Sono tesa, devo sgranchirmi un po’», e cominciò a camminare avanti e indietro, mentre Bruno la seguiva con lo sguardo.
Si arrestò in piedi davanti a lui che, seduto sul tronco, era costretto ad alzare lo sguardo per incrociare quello sfuggente di lei.
«Tutto sembrava svolgersi nella normalità, fino a quando, durante i preliminari», sospirò e proseguì con voce ormai prossima al pianto, «mi sussurrò all’orecchio cosa voleva che facessi… una cosa schifosa, avvilente, umiliante anche per una puttana!» A quel punto non ce la fece più a trattenere il pianto, e singhiozzando continuò, davanti allo sguardo prima incredulo e di seguito agghiacciato di Bruno, a descrivere le perversioni che aveva dovuto subire. Inorridita dalle richieste di Hitler provò a rifiutarsi di sottomettersi a pratiche disgustose. Al che lui la colpì con un pugno allo stomaco e cominciò a urlare frasi sconnesse. Poi, mentre lei si rintanava terrorizzata in un angolo della camera, afferrò la cinghia dei pantaloni (era appoggiata sullo schienale di una poltrona) e iniziò a frustarla. A quel punto comprese di avere a che fare con un pazzo furioso, e che se voleva uscirne viva doveva sottomettersi, accettando di fare cose così sporche, che solo un malato di mente poteva considerare eccitanti. E l’ondinismo fu solo l’inizio e nemmeno la peggiore delle sporche perversioni a cui dovette sottostare Rita prima di svenire. «… Mi risvegliai immersa fino al collo nell’acqua calda. Mi guardai attorno: qualcuno mi aveva messa dentro la vasca da bagno. Volsi lo sguardo in direzione della porta e mi prese un colpo: un ufficiale delle SS appoggiato allo stipite mi teneva d’occhio. Lo udì dire a qualcuno che mi ero ripresa. Poi uscì e dopo pochi secondi vidi entrare quel verme zoppicante!»
«Goebbels?»
«Sì, lui. Prese l’accappatoio appeso dietro la porta e me lo porse, dicendo: “Tenga, si asciughi e si rivesta. L’aspetto di là”, e indicò i miei vestiti appoggiati sul ripiano di fianco al lavabo.»
Trasse un lungo respiro. «Mi sentivo confusa, non riuscivo a mettere bene a fuoco cosa fosse accaduto. Non volevo, non potevo credere che fosse successo veramente. Ma quando uscii dal bagno, la scena che mi si parò davanti agli occhi, spazzò via l’ipotesi che si fosse trattato di un brutto sogno: c’erano altri due ufficiali delle SS che pulivano il pavimento e cambiavano le lenzuola del letto. Udii una voce oramai familiare chiamare il mio nome. Era Goebbels che mi diceva di raggiungerlo in salotto. Lì, con modi spicci e un tono secco che non ammetteva repliche, mi “invitò”, per il mio bene, a dimenticare quello che era accaduto quella notte e, mostrandomi il contenuto di una busta, mi disse che avrei dovuto prendermi un periodo di riposo lontano dalla capitale… ricordo che facendo frusciare le banconote all’interno della busta precisò: “Direi, di almeno tre mesi!” Impaurita infilai la busta nella borsa e senza proferire verbo feci per andarmene. Lui mi afferrò per un braccio e con sguardo torvo aggiunse: “Accetti un consiglio: dimentichi questa faccenda, non ne faccia parola con nessuno. E’ giovane e bella, potrebbe vivere bene e a lungo, se non commetterà errori… Noi la terremmo d’occhio, non permetteremo che possa farsi del male”, concluse sibillino prima di salutarmi. L’autista del ministero degli esteri mi attendeva al piano terra per accompagnarmi a casa. Durante il tragitto non dissi una parola, continuavo a voltarmi per controllare che non ci seguissero. Una volta a casa mi chiusi dentro. Passai l’intera notte affacciata alla finestra riflettendo sul da farsi. C’era una macchina nera parcheggiata dall’altra parte della strada; sconvolta per quanto era successo, forse li immaginai soltanto, o forse no, i due uomini vestiti di nero all’interno. Fatto sta che il mattino dopo feci i bagagli e mi recai alla stazione… ed eccomi qua!»
«E’ una storia incredibile… incredibile», disse fra sé Bruno.
«Non mi credi?!» sbottò Rita. Si tirò su il maglione. «Allora guarda! Me li sono fatta da sola questi!», urlò stridula, mostrandogli i segni bluastri che le cinghiate le avevano lasciato sulla schiena.
Bruno si premurò di farle sentire la sua vicinanza abbracciandola. «Calmati, se sono qui è perché ti credo. Ora dobbiamo decidere il da farsi. Purtroppo ci sono altri che ti stanno cercando…»
«Chi! I nazisti?» fece Rita spaventata.
«Non lo so. In ogni caso, ti stanno cercando già in troppi. Quando Apollonia ha scoperto che te n’eri andata, si è data da fare per capire cosa ti fosse successo. A Roma c’è chi crede che hai scoperto qualcosa di veramente grosso…»
«Per esempio, che quel coglione gode usando la donna al posto della latrina!» saltò su in tono schifato Rita.
«Per esempio, che quel coglione si sia fatto bello ai tuoi occhi rivelandoti le sue prossime mosse.»
Rita mise su uno sguardo dolente. «Beh, mi spiace deluderti, ma a quel pazzo interessava soltanto umiliarmi.»
Bruno Annuì. «Comunque, per il momento è meglio che te ne stia nascosta. Ma qui non ci puoi stare.»
«E nemmeno da mia madre, presumo», aggiunse sconfortata Rita.
«No, nemmeno da tua madre», confermò con fare pensoso Bruno. «Dobbiamo cercare un albergo fuori mano per almeno una o due notti. Il tempo necessario per concordare un piano… Prendi la tua roba, ce ne andiamo!»
«Dove?»
«Non lo so ancora. Ci dovrà pur essere in mezzo a queste colline un albergo o una locanda.»
«Resterai anche tu?»
«Devo parlare con qualcuno. Tornerò il prima possibile», notò lo sguardo perplesso di Rita. «Devi fidarti, Rita.»
«Non puoi telefonare?»
Bruno scosse il capo. «E’ una faccenda troppo grossa per rischiare. Avranno sicuramente messo sotto controllo i telefoni. Farò il possibile, e anche l’impossibile per tornare entro domani, te lo prometto.»
Il tono accorato parve rasserenarla un po’. «Va bene, facciamo come dici tu.»
Mentre percorrevano il sentiero per raggiungere lo spiazzo dove aveva parcheggiato l’automobile, Rita si rammentò di un particolare. «Chi è Geli?»
«Geli?» fece Bruno, aggrottando le sopracciglia.
«Sì, Geli. Hitler a un certo punto della sua schifosa “esibizione” ha cominciato a chiamarmi con quel nome.»
«Uhm», fece Bruno, «la sua “amante ufficiale” si chiama Eva, Eva Braun. Non so chi sia questa Geli… un’amante occulta, presumo.»
«Eva, Geli, donne disposte a tutto, anche a umiliarsi pur di annusare la puzza del potere!» chiosò acida Rita.
Geli, la nipote e presunta amante di Hitler, morì, forse suicida, nell’appartamento dello zio, a Monaco di Baviera, il 18 settembre 1931.
Bruno parlò con Alighiero lo stesso giorno e subito dopo raggiunse Roma pilotando personalmente l’idrovolante Macchi M.C.94. Il mattino seguente relazionò Italo Balbo, che fu tranciante: «Una storia di letto non serve allo scopo! Se vado dal duce con in mano queste carte; quello, che le amanti le cambia come e più dei calzini, mi ride in faccia!»
Al che Bruno gli chiese come doveva comportarsi con la ragazza.
«Scaricala! Quella è ormai bruciata!» fu la brutale risposta. «Apollonia ha fatto il diavolo a quattro per sapere che fine ha fatto. E il risultato è che ora, oltre a quelli dell’OVRA, la sta cercando pure la GESTAPO! E’ merce che scotta, lasciala al suo destino!»
Bruno ascoltò allibito, e alla fine, infervorandosi, provò a spiegargli che aveva promesso a lei e alla madre che l’avrebbe aiutata, e che per questo e per l’amicizia che lo legava a Rita non avrebbe potuto abbandonarla al suo, non certo roseo, destino.
Ma Italo Balbo non volle sentir ragione e lo congedò in tono gelido, intimandogli di obbedire, se non voleva passare guai grossi.
Bruno uscì dall’ufficio di Italo Balbo deluso e arrabbiato; l’eroe, il trasvolatore che tanto aveva ammirato, si era rivelato un politico cinico e freddo. Durante il volo di ritorno ebbe modo di sfogliare l’album dei ricordi, e alla fine convenne con la sua coscienza che non lo poteva fare; non la poteva abbandonare al suo destino. Presa la decisione doveva elaborare un piano in fretta e furia, prima che i pattini dell’idrovolante toccassero l’acqua dell’Idroscalo.
«Preparalo per il decollo, domattina devo tornare a Roma con un passeggero», ordinò al meccanico prima di lasciare l’Idroscalo, prendere l’automobile e correre da Rita.
Come le aveva promesso, a sera riabbracciò Rita. Dopodiché, durante la cena, le spiegò il piano che aveva escogitato per porla in salvo.
All’inizio lei non parve troppo convinta; ma poi, di fronte agli argomenti più che validi messi sul tavolo da Bruno, cedette e si lasciò guidare.
Alle prime luci dell’alba lasciarono la locanda e, alle nove, raggiunsero l’idroscalo. Il meccanico li attendeva accanto al velivolo; Bruno gli chiese se era tutto in ordine e, ricevuto il nulla osta, salì a bordo insieme a Rita e iniziò le manovre per il decollo.
Volgendo lo sguardo notò un po’ di apprensione nello sguardo di lei. «E’ la tua prima volta?»
«Sì… non ho mai volato», rispose titubante.
«Sarà bellissimo. Lassù, ci sentiremo liberi», la rassicurò mentre dava manetta ai motori.
«E’ davvero bellissimo», mormorò Rita, sgranando gli occhi stupefatti sull’Idroscalo e la pianura circostante, mentre l’idrovolante compiva una virata per puntare deciso verso nord.
«E dopo, tu cosa farai, dopo?» domandò Rita mentre sorvolavano le montagne.
Bruno le regalò un sorriso affettuoso e sincero. «Resterò con te… e saremo di nuovo felici, come lo siamo stati da bambini.»
«Grazie, Bruno», mormorò commossa Rita, accarezzandolo.
Fu un volo breve, mezz’ora dopo essere decollato dall’idroscalo, l’idrovolante posava i pattini sull’acqua cheta del lago di Lugano. La Svizzera era la loro meta finale, dove sarebbero stati accolti come rifugiati politici in fuga dal regime fascista.
Bruno e Rita tornarono in Italia al termine del conflitto e, insieme a Laura, la loro figlia, nata il 15 dicembre del 1942, riabbracciarono Ernestina.
FINE
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L'AUTORE Vecchio Mara
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